uomo che cade

 

 

faccia.jpg

I know a ghost
Can walk through the walls
Yet I’m just a man
Still learning how to fall

(Blonde Redhead)

28 aprile 2014. Apri gli occhi. Qualcosa ti ha svegliato. Sei confuso, non riesci a capire. Dove ti trovi? Ti guardi intorno: un treno. Qualcosa ti disturba, non riesci a capire cosa. Guardi fuori dal finestrino: campi di grano inondati dal sole. Campi… L’Illinois. Stai tornando a New York City. Ora ricordi. Ritorni… Qualcosa ti disturba, non riesci a capire cosa. Ti guardi intorno disorientato. Gente, facce comuni di gente comune. Poi capisci. La musica. Le cuffie che trasmettono musica in streaming, l’apparecchio che capta le onde radio con cui hanno saturato l’atmosfera. Questa musica… Ti ricorda qualcosa. Ti ricorda troppe cose. I ricordi ti soffocano, riempiono i tuoi polmoni come acqua. E tutto crolla, in un attimo, per un attimo. Stai facendo la cosa giusta? Non hai più scelta, a questo punto. Stai… Non hai più alcuna scelta, non puoi più tirarti indietro. Non hai… Questa musica… Nessuna scelta…

Aprile 1998. Vento. Un vento dolce sulla piazza. Solleva sacchetti di plastica. Scuote gli alberi. Scuote la gonna di N, scompiglia i capelli di B. Sole contro le lenti scure di tre paia di occhiali. Poi la porta si apre. Buio. Scale. Un attimo di luce. Il garage, di nuovo buio. Tre paia di occhiali scuri scompaiono, simultaneamente.

S posa la chitarra, una Rickenbacker arancione. Si alza, apre la finestra, si accende una sigaretta.
“Cosa ne dite?”, chiede.
“A me piace” dice N. Tiene il basso posato in grembo e si arrotola una ciocca di capelli lisci intorno all’indice. Ha la frangia sugli occhi e la coda di cavallo. “Forse è una delle cose migliori che abbiamo”.
Guardano entrambi B, che a sua volta guarda nel vuoto. I capelli lunghi gli coprono il volto magro, affilato. Non parla.
Il batterista, l’ultimo di una lunga serie, ha un’aria soddisfatta. “Cazzo”, dice. “Certo che mi piace. È una cosa che non si è mai sentita, questa.” Scuote la testa. “Ma da dove le tiri fuori, queste idee, eh?”, dice a B. “E pensare che non ti droghi nemmeno…”
B sorride.
Un sorriso pallido.

Serata di primavera. Il sole non è ancora tramontato. Sono seduti al tavolo di un bar, non lontano dall’università. Studenti che passano. Vento, vento caldo. B slaccia un bottone della camicia, si aggiusta la giacca di pelle.
Gli strumenti sono posati accanto al tavolo. C’è un’aria elettrica, tutto scintilla. Gli occhi di N scintillano dietro gli occhiali da sole. I capelli ricci di S scompigliati dal vento. Sensazione fresca della birra che scivola lungo la gola. Sorrisi.
N racconta dell’estate passata a Londra. I locali, la musica, i ragazzi. Sorrisi.
C’è un’aria elettrica, il gruppo va bene, hanno parecchie date in programma. Sono felici. B si scompiglia i capelli, accende una sigaretta, ride a una battuta di S. Gli occhi di N scintillano dietro gli occhiali da sole.
Ci sono ricordi da tutte le parti. L’Inghilterra. Il mare del nord. Il vento. L’inverno appena trascorso, Torino invasa dalla nebbia, il loro appartamento, luci di candele.
Sono felici.
Sorrisi.

Nove ore più tardi. L’orologio sulla parete segna le tre e venticinque. Le finestre sono aperte sulla notte di primavera. Vento. Profumo di fiori, odore della città, profumo di sesso, odore di sudore: è una questione di punti di vista.
Le tre e venticinque. Sono stesi sul grande letto matrimoniale disfatto. N è al centro. S gira una canna. B guarda il soffitto. Bianco, vuoto, perfetto.
“Dovremmo andare a Londra”, dice N. “Dovremmo andarcene. Non abbiamo futuro in questo posto”.
Nessuno risponde. N si alza. Si infila gli slip, scompare in bagno. S accende la canna.
Quando N torna dice: “Ci andremo, a Londra”. Espira. “Solo che questo non è il momento buono”. Pausa. Fiamma dell’accendino. Soffia. Tira. Inspira. Espira. “Non siamo ancora pronti”.
Sguardo inespressivo sul volto di N illuminato dall’abat-jour.
“Certo che siamo pronti”, dice. Non è convinta.
“Londra”, dice B. “Cosa volete che sia Londra”. Scuote la testa. Prende la canna dalle mani di S e la porge a N. “Londra non è abbastanza”.

Quattro e quarantasette. N dorme, rannicchiata come una bambina. I suoi occhi scintillano dietro le palpebre chiuse.
B è sul balcone, in mutande e infradito. Indossa un maglione a righe rosse e nere. Fuma una sigaretta. Si scompiglia i capelli che gli coprono il volto magro, affilato.
S si è chinato sullo stereo al centro della stanza. Mette un disco. Cerca una traccia. Abbassa il volume. Poi dice: “Buonanotte”. B, dal balcone, risponde: “Buonanotte”.
Notte di primavera. Profumo di fiori, odore della città, profumo di sesso, odore di sudore.
B dal balcone guarda un’auto della polizia passare, i lampeggianti accesi ma la sirena spenta. Fuma la sua sigaretta. Aspetta che parta il pezzo. Il pezzo parte. “Battle”, dei Blur.
Invade la notte come acqua nei polmoni.
B ascolta.
Sorride, senza sapere il perché.

Hai perso qualcosa, lo sai. Qualcosa è andato perduto. Cos’era? Com’è cominciato tutto? Non te lo ricordi. C’era quel sole di aprile che faceva male. E il vento. L’aria elettrica di quella primavera. Avevi vent’anni. Avevi avuto altre ragazze prima. Altri amici. Altri gruppi. Il gruppo andava bene, l’aria elettrica di quella primavera. Qualcosa stava per succedere. Cos’era? Avevi avuto altre ragazze, altri amici… Non eri innamorato di lei. L’amore non esisteva, e non esisteva la solitudine. C’era solo il sole di aprile. Faceva male. Le labbra di lei incollate all’orecchio… Com’era cominciato? Era un gioco, nient’altro. La consapevolezza che qualcosa stava per succedere. Era magico, era elettrico, era la sensazione di quel vento sulla pelle… Non avevi speranze. Sapevi che sarebbe finito e non t’importava. Poi però è finito davvero. Le labbra di lei incollate all’orecchio, la primavera… Qualcosa è andato perduto. Vi siete separati. Avete lasciato l’appartamento. Avete sciolto il gruppo. Qualcosa è andato perduto e sarà perso per sempre. Cos’era? Cosa viene dopo?

Aprile 2002. B slaccia la cintura di sicurezza. Guarda dal finestrino: buio, cemento, pioggia. La voce del pilota augura ai passeggeri una buona permanenza a Londra. B si alza.

Heathrow inondato di luce. Voci frettolose nelle lingue di mezzo mondo. Facce comuni. Cartelloni pubblicitari.
La porta del bagno si chiude, inghiottendo i rumori. B si guarda allo specchio. Si scompiglia i capelli, si slaccia un bottone della camicia, si aggiusta la giacca di pelle.
“Non avrei dovuto accettare l’invito”, pensa. “Non avrei…”. Si lava le mani. Sapone liquido rosa al profumo di fragola. “Sarà imbarazzante”.
Esce dal bagno. Luce. Rumori. Voci frettolose nelle lingue di mezzo mondo.
Non ha bagagli, niente da aspettare.
Segue l’indicazione “Exit”. Porte che si aprono automaticamente. Altra luce, altri rumori.
Li vede.

In auto, mentre guida sulla corsia sinistra, S parla. N ascolta dal sedile posteriore. B guarda dal finestrino e pensa:
S è ingrassato e si è fatto crescere la barba. È cambiato.
N ha un nuovo taglio di capelli e si è tatuata qualcosa sul polso. Non è cambiata.

Abitano da soli in un appartamento ad Islington, un quartiere che B non ha mai sentito nominare.
Sono belli, sono emancipati, sono medi.
Sono fotografie sulle pagine di una rivista di tendenza.
N posa saltuariamente per pubblicità di abbigliamento. Nel resto del tempo fa la cameriera in un locale sotto casa.
S ha cambiato molti lavori, al momento è disoccupato.

Passa a Londra due giorni in cui non smette di piovere.
Pioggia sottile, visite a casa di amici, sushi bar, aperitivi.
Cercano di scherzare ma non ci riescono.
Non c’è imbarazzo, solo un silenzio insormontabile.

Ultima sera della permanenza di B a Londra. Cena al ristorante indiano. Candele che illuminano il volto di N. I capelli ricci di S invasi dalla luce. Tre bottiglie di vino bianco fanno brillare i loro occhi.
“… no, non ho capito questa storia del progetto”, dice S. “Non ho capito bene di cosa ti occupi”.
“E’…”, B esita. “Applicazione del sistema nervoso umano alla musica”. Scuote la testa. “E’ semplice, alla fine dei conti. Io…”
Fa una pausa.
“… lavoro con uno staff di medici e di ingegneri del suono…”
Un’altra pausa.
“…mi… mi pagano bene”.
S sorride.
“Non sono i soldi, vero?”
B scuote la testa.
“No”.
Silenzio, un silenzio sospeso, morbido. Si guardano. Tutti e tre, per un secondo.
“Sei felice?”, chiede N.
“Faccio quello che mi piace”, risponde B. Anche il suo tono è morbido, sospeso.
S ride.
“Cazzo, sì”, dice. “E’ questo che ti piace, non è vero? E’ qui che volevi arrivare…” Fa una pausa. Scuote la testa. Beve un sorso di vino, senza smettere di sorridere.
“E’ qui che hai sempre voluto arrivare…”
B scuote la testa, si scompiglia i capelli.
“E’ solo l’inizio”, dice.
Di nuovo silenzio, morbido, sospeso. Candele che fanno brillare i loro occhi. S si appoggia allo schienale, appoggia la mano sulla spalla di N.
B nota quel contatto. N accende una sigaretta. Il suo volto invaso dalla luce, i suoi occhi che brillano nella luce delle candele. I loro sguardi si incontrano. N inspira. Espira. Sorride. Continuano a guardarsi. N continua a sorridere.
“Sei cambiato”, dice. “Sei dimagrito”.
B annuisce.
“Lo so”.

Com’è cominciato tutto? Quando hai capito che sarebbe stato il tuo obbiettivo, la tua unica ragione di vita? Non lo sai. È sempre stato uguale. Quella voglia… Quella tentazione a scomparire. Quell’amore per il vuoto. Quella… Tentazione… Londra. Cosa sono stati quei giorni a Londra? Nulla. Una parentesi. Avevi fretta di tornare a Torino. Al tuo lavoro. Al tuo obbiettivo, alla tua ragione di vita. Credi che avrebbero capito? No. Questo lo sai. Loro non capivano… Non hanno mai capito. Il progetto. Non l’avrebbero capito ugualmente, anche se avessi provato a spiegarlo. Il progetto… Applicazione del sistema nervoso umano alla musica. Una formula che nascondeva qualcosa di profondo. Quella tentazione a scomparire. Quell’amore per il vuoto. Fare musica non era abbastanza. Il tuo obbiettivo, la tua ragione di vita… Diventare musica. Trasformarsi. Scomparire. Ed era possibile, loro…. Non sapevano… Era possibile… Non a Torino, non nel 2002. Ma si poteva fare, e tu lo sapevi. Trasformare il proprio corpo. Annullarlo. Loro… Volevi solo andartene. Lontano da loro. Lontano… Loro… Non capivano, non avrebbero mai capito. Loro…

Aprile 2008. Vento. Un vento violento sulla piazza del paese. Buio. Pioggia contro i vetri delle auto parcheggiate. Pioggia sulle strade deserte. Vento e pioggia ovunque, vento e pioggia su campi, vento e pioggia nei polmoni.
S si allontana dal vetro e prende in mano il telefono.
Esita.
Rumori dalla cucina, stoviglie, televisione accesa sul telegiornale.
Esista.
Poi compone il numero.

“Ho saputo che sei tornata”.
“Mio padre non sta bene”.
“Lo so. Mi dispiace”.
Silenzio.
“Vorrei parlarti”.
“Non abbiamo niente da dirci”.
“Vorrei parlarti lo stesso”.
Silenzio. Dall’altro capo N esita. Sta cedendo. Lo sa.
“Va bene”, dice alla fine, fredda. “Quando? Dove abiti adesso?”.
“Fuori, dopo Nichelino”.
Silenzio.
“Possiamo vederci domani pomeriggio”.
“Finisco di lavorare alle sei”.
“Va bene. Dove?”
“Al solito bar?”
“Non c’è un solito bar”.
Silenzio. S fissa il vuoto davanti a sé. Guarda la pioggia contro la finestra. Abbassa lo sguardo a terra.
“Non dovresti fare così”, dice. “Sono passati quattro anni”.
Silenzio. Il respiro di N dall’altro capo del telefono.
“Scusa”, dice.
Silenzio. Il respiro di N dall’altro capo del telefono.
“Ci vediamo domani?”.
“Sì”.
“Bene.”
“Ciao”.
“Ciao”.

Pomeriggio di aprile. Pioggia. Vento e pioggia. Pioggia contro i vetri del bar, pioggia nei polmoni. N svuota la bustina di zucchero nel caffé. Mescola.
“Hai una donna?”, chiede, guardando la tazzina. Ha cambiato di nuovo taglio di capelli. È sempre la stessa.
“Sì”, dice S. “Noi…” Esita. “Aspetta un bambino”.
N annuisce.
“Congratulazioni”.
Adesso è S ad annuire.
“Grazie”.
“Perché hai voluto vedermi?”
S sospira. Ha lo sguardo basso sulle mani intrecciate.
“Sai qualcosa di…”
“No”, lo interrompe lei.
“L’ho chiamato qualche mese fa. Vive a New York”.
N annuisce.
“Questo lo sapevo”.
Silenzio.
“Il suo progetto?”
“Bene. Va…” Esita. “Va benissimo. È su tutte le riviste scientifiche, è…” Esita di nuovo. “Sembra la più grande scoperta della scienza dai tempi della ruota”.
Sorride. Un sorriso pallido.
Un attimo di silenzio. Rumore della pioggia contro i vetri del bar. Voci di gente comune. Rumore dei tram elettrici che passano sulla strada luccicante, inondata di pioggia.
I loro sguardi si incontrano. N continua a mescolare il caffé. Pensa che S è ingrassato ancora. Sarà padre. Pensa… Qualcosa. Ricordi. Londra, la sua vecchia casa, la sua nuova casa. Il suo nuovo fidanzato. “Tutto questo è così stupido”, pensa. Altri ricordi. Primavera di dieci anni prima. Qualcosa comincia a cedere dentro di lei. Il suo sguardo si addolcisce. Poi un sospetto. La dolcezza si tramuta in paura. Il sospetto si tramuta in certezza.
“C’è qualcosa che non va?”, chiede.
Conosce la risposta.
S continua a fissarla, senza parlare.

Nove di sera. Ha smesso di piovere. Vento dolce sulla piazza del paese. N accosta davanti al portone di un condominio. Non spegne il motore.
“Allora sentiamoci”, dice. Ha pianto. Sorride per trattenere altre lacrime.
S annuisce.
“E’ stata una bella serata”.
“Sì”.
“Sentiamoci”.
“Sì”.
Silenzio. Un silenzio lungo e intimo. La notte e il rumore del vento tra gli alberi.
“Scusa”, dice N. “Per questi anni”.
“E’ stata colpa mia, lo sai anche tu”.
“Sì”, dice N. “E’ vero”. Ride e una lacrima le cola sulla guancia. La asciuga con il palmo della mano.
“Sentiamoci”, dice S. “Davvero”.
“Sì”.
“E…” Esita. “Chiamalo”.
Si guardano. N distoglie lo sguardo. Lo abbassa. Annuisce.
“Ok”, dice S. “Ciao”.
Si china su di lei. La bacia sulla guancia. Apre la portiera.
“Ciao”, dice ancora.
“Ciao”, dice lei.
S si allontana e scompare nel portone, senza voltarsi indietro.
N comincia a piangere, in silenzio.

Telefonate. Lettere. E-mail. Gente conosciuta ad un aperitivo. Sala d’aspetto di un aeroporto. Cose che ti cambiano la vita. Tu… Cos’hai pensato quando hai capito che era possibile? Fino a quel momento non ci avevi creduto, non fino in fondo. Poi è successo. Dopo Londra. Dopo quel… Una telefonata. Un colloquio in un grande palazzo. Gente che parla in inglese. Americani… L’America. La sala riunioni di un grosso palazzo. Luci impersonali, facce impersonali. Le tue ricerche. Il tuo progetto… Cos’hai pensato quando hai capito che si poteva fare? Cos’hai pensato quando lei ha suonato il campanello di casa tua? Era il 2004, un’altra primavera. Vi siete guardati. Non potevate capire. Voi… Cos’hai pensato quando ti ha detto che si erano lasciati? Che lui l’aveva lasciata per un’altra, che aveva cambiato casa? Soddisfazione? Vendetta? Piacere? Niente. Tu non potevi… Saresti partito per New York la settimana successiva. Lei non lo sapeva. Lacrime. Sorrisi. Voi… L’hai baciata. Nessuno l’ha mai saputo. Avete provato a fare l’amore, ma tu non potevi… Non potevi più… Se n’è andata la mattina dopo. Non dovevi pensarci. Non potevi. Eri il tuo progetto, la tua ragione di vita. È passata una settimana. Attesa. Ansia. La sala d’aspetto di un aeroporto. Poi Manhattan, un altro grosso palazzo, altre luci impersonali. Avete cominciato a lavorare… Progetti. Il progetto. Immagini olografiche sugli schermi dei computer. Le luci impersonali di quella stanza, il tuo corpo ridotto a niente. Impulsi. Elettrodi applicati al tuo cranio rasato. E quella musica… Quei rumori… Quella tentazione… Dieci anni di esperimenti. Il tuo corpo ridotto a niente. Continuavi a dimagrire… Elettrodi applicati al tuo cranio rasato, e la musica che si perfezionava. Non dovevi pensare a lei. Non dovevi pensare a loro. Non potevi, non potevi più… Silenzio, solitudine, spazi vuoti. La musica che nascondevi dentro. Tutto questo è stata la tua vita, fino a quando… Oggi, 28 aprile 2014. Alba radiosa di una giornata radiosa dell’Illinois. Campi di grano al tuo risveglio. Campi di grano fuori dalla porta dell’edificio governativo che abiti da quattro anni. Oggi è il momento. Oggi tutto finisce e tutto comincia. Non provi niente, solo determinazione. Non provi… Non più… Mani che stringono mani. Consigli. Abbracci alla stazione. Il treno che arriva, sali i gradini, posizioni su un sedile prenotato di prima classe il tuo corpo ridotto a niente. Tu… La tua vita è finita. Qualcosa comincia. Chiudi gli occhi. Nessuna scintilla dietro le palpebre chiuse. Chiudi gli occhi… Dondolio del treno che comincia a muoversi… Chiudi gli occhi… Dormi. Devi dormire. È tutto finito. Devi dormire… Dormire…

28 aprile 2014. Vagone di prima classe di un treno diretto a New York City. Un tremito impercettibile sul volto di B. Occhi spalancati. Muscoli tesi. Denti stretti.
Cuffie nelle orecchie: questa musica. Questa… Capisce.
Ora ricorda. Un’immagine: un appartamento di studenti. Un letto matrimoniale. Uno stereo in mezzo alla stanza. Una finestra aperta. Musica che invade la notte.
Non respira.
Non riesce a comprendere fino in fondo. Cosa è andato storto? Cosa…
Qualcosa dentro di lui comincia a cedere.
Questa musica che lo avvolge, che invade i polmoni. Questi ricordi. Vent’anni. Londra. Vento di primavera. Ristorante indiano. Le labbra di lei incollate all’orecchio.
Cede, sempre più rapidamente.
Il bar accanto all’università. Occhiali da sole. Luci di candele. Londra. Vento di primavera. Capelli ricci scompigliati dal vento. Le labbra di lei incollate all’orecchio.
Crolla. In silenzio.
Campi di grano dell’Illinois, giornata di primavera, facce comuni di gente comune. Tutto si sgretola. Svanisce. Scompare.
Ora ricorda.
Un impulso irrefrenabile di urlare, di esplodere, di esistere.
Ricorda.
Comprende di avere paura.
Ricorda.

6 risposte a “uomo che cade”

  1. Adoro come procede il racconto, il ritmo ti prende.
    Non ho capito cosa intendevi dire, ma lo hai detto molto bene.
    Riesci a far intuire una fotografia in dieci righe, complimenti

    E’ una contaminazione?

    “L’unica verità è che non si torna mai indietro” dice il protagonista

  2. grazie a tutti e due, ho letto i commenti insieme…
    (giorgio ci rivediamo su fam?? io aspetto…)

    e johnny: credo tu abbia colto molto bene pregi e difetti della mia scrittura.
    sì – è un’istantanea.
    e sì – quello che voglio dire tende a scomparire.
    una volta credevo fosse un bene, ora non ne sono più troppo convinto.

    cosa intendi con “contaminazione”?
    è un termine che mi piace molto e questo racconto è molto “contaminato”.
    ma cosa intendi esattamente?

  3. ‘contaminazione cinematografica’ forse non suona così male.

    (chiedo venia, magari sto osando troppo)

    Anche per merito delle ottime descrizioni mi sembrava di vedere un filmato tra le parole, scorgere un parallelo con qualche lungometraggio, come dire, sentivo aria di grande schermo.
    Mi chiedevo se vi fosse un particolare riferimento ad una pellicola o una canzone, ad esempio mi ha ricordato ‘2046’.

    Pensi che il tuo racconto potrebbe diventare un film?

  4. be’ devo dire che hai centrato di nuovo il punto.
    sì è tutto molto cinematografico. cerco di rendere la mia scrittura più “cinematografica” possibile, qualunque cosa ciò voglia dire. come tutti i nati negli anni 80 sono cresciuto ad immagini e suoni più che a parole. e anche i miei modelli letterari “contaminano” molto…

    non c’è riferimento ad una pellicola specifica, anche se wong kar-wai fa un tipo di cinema al quale credo di avvicinarmi abbastanza con le cose che scrivo.
    un riferimento ad una canzone invece c’è, è il pezzo dei blonde redhead citato.

    in linea generale cerco di fare qualcosa che metta in parole stimoli sensoriali provenienti da media molto diversi (cinema e musica per primi).
    credo che uno scrittore debbe sempre interessarsi al sistema dei media più che al suo medium specifico, altrimenti rischia di non rendersi conto del mondo che ha attorno (ed è un buco nero in cui la letteratura cade molto spesso, soprattuto in italia…)

    nello specifico credo proprio di sì, che questo racconto, come altri miei, potrebbe benissimo adattarsi ad una trasposizione cinematografica.
    quella della scrittura per audiovisimo è una strada molto interessante che mi piacerebbe intraprendere, finita l’università.

    anche tu scrivi?
    hai un sito o un blog dove posso trovare del materiale?

  5. spiacente di deluderti: mi avvicino molto all’antitesi del paroliere, non so scrivere ed ho per giunta una pessima calligrafia! 🙂
    talvolta però mi piace leggere qualcosa

    quando avrò qualcosa di speciale da comunicare penso che aprirò un blog,
    prima magari comprerò una reflex digitale o imparerò a suonare, la mia vena artistica è un po’ in secca..

    mi piace parecchio la tua filosofia e anche (sorprendentemente!!) la messa in pratica,
    mi auguro che questo genere di libri affollino presto le librerie e ti auguro di firmarne qualcuno,
    forse già ve ne sono a mia insaputa, verificherò

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