Esiste una letteratura italiana all’estero?

[Nella fotografia: Italo Calvino nella sua casa di Parigi]

In un periodo in cui si parla molto di “classe disagiata”, dal titolo di un fortunato pamphlet di Raffaele Alberto Ventura (Teoria della classe disagiata, minimum fax), c’è una classe più disagiata delle altre: quella degli scrittori italiani che vivono all’estero.

Non mi riferisco ai privilegiati che fanno parte della scena di New York o di Londra ma che sono basati a Roma o Milano (per una disamina della categoria leggetevi Class di Francesco Pacifico), e nemmeno a quel gruppo ancora più ristretto di veri globetrotter, dandy dell’epoca degli sconti sulle miglia aeree che un giorno postano su Facebook una foto del Prada Marfa con una citazione di Ben Lerner, la mattina dopo presenziano a un vernissage d’arte contemporanea a Parigi e la sera discutono con Geoff Dyer in un salotto letterario di Torino.

Mi riferisco a quelle persone che per una ragione o per l’altra hanno dovuto lasciare l’Italia per trasferirsi all’estero e sono anche scrittori o, se esistono, a quegli scrittori che hanno lasciato l’Italia apposta per scrivere. Non sono una “classe” vera e propria – se non forse nel senso di una tassonomia letteraria – ma sicuramente vivono una forma di disagio: quella di scrivere in una lingua che non è quella del paese in cui abitano, per un pubblico che incontrano solo raramente e pagati da meccanismi editoriali le cui dinamiche, se vivi all’estero abbastanza a lungo, cominciano a sembrare esoteriche.

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