[Illustrazione di Ben Tallon]
Nella sua meravigliosa biografia infedele del grande scrittore californiano (Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi 2016), Emmanuel Carrère racconta che Philip K. Dick si divertiva a giocare con i figli al Gioco del Ratto, una versione adattata del Monopoly in cui il banchiere, naturalmente interpretato da Dick stesso, può fare quello che vuole: annullare le mosse dei personaggi, spedirli al “Via!”, chiuderli in prigione, sequestrarne case e alberghi. Se non si trattava proprio di un’esperienza educativa, il Gioco del Ratto aveva il pregio di mettere i concorrenti di fronte all’arbitrio della narrazione: colui che racconta seduce, ti porta in un mondo dove lui è signore e padrone, dove nulla esiste al di fuori della sua parola. La narrazione non è un dialogo ma un rapimento brutale, un atto erotico di possesso.
Penso sempre al Gioco del Ratto ogni volta che la sera accendo la tv e avvio Netflix, una delle grandi macchina narrative dei nostri tempi, che Claudia Durastanti in un articolo apparso su Pixarthinking ha giustamente definito una Sharazad moderna («anche noi, ogni sera, ci raduniamo in una stanza davanti a una fonte luminosa per soccombere al racconto», come in una Mille e una notte contemporanea). Fondata nel 1997 in California, e nata come azienda di vendita di dvd via posta, Netflix ha fatto il grande salto nel 2013 quando è diventata una casa di produzione oltre che di distribuzione. E da qualche tempo ha cominciato a riflettere sul proprio ruolo di narratore con un numero di show tanto connessi tra loro da apparire come un vero sottogenere: mi riferisco alle serie Stranger Things, The OA e Tredici, e ai documentari Amanda Knox e Casting JonBenet.