Le serie TV dieci anni dopo Lost

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Notizia che passerà probabilmente inosservata: sono passati dieci anni dalla prima italiana di Lost (22 marzo 2005 in pay-per-view). Credo che per la mia generazione si sia trattato di un evento importante, di quelli che cambiano un po’ il modo di rapportarsi alla narrazione e quindi la maniera in cui facciamo esperienza del mondo. 

Eppure spiegare perché non è semplice. C’entra in parte la serializzazione della narrazione non lineare e il fatto che la non-linearità sia stata trasformata forse per la prima volta in un prodotto completamente globale grazie a un uso del flashback e flashforward particolarmente disinvolto nei confronti della successione temporale. Ma non si tratta di un elemento innovativo di per sé. Prendendo a caso qualche esempio dalla storia della letteratura ricordo Orlando di Virginia Woolf (1928, la storia di un solo personaggio raccontata in 500 anni), i viaggi nel tempo di Mattatoio numero 5 di Kurt Vonnegut (1969), la storia di una famiglia raccontata in un solo giorno nel Tristram Shandy di Laurence Sterne (1767) e nell’Ulisse di Joyce (1922), nonché naturalmente Alla ricerca del tempo perduto di Proust (1909-1922). Ma sono solo esempi scelti tra moltissimi: pochi temi sono importanti nella storia dell’arte quanto il tempo e pochi romanzi moderni, da Cervantes in poi, non hanno sperimentato con questa dimensione fondamentale dell’esistenza umana.

Una chiave di lettura forse più proficua è quella tecnologica: in versione originale Lost ha visto la luce nel 2004, lo stesso anno di Facebook. Twitter sarebbe arrivato due anni dopo. Allo stesso tempo internet come strumento quotidiano di conoscenza e condivisione ha cominciato ad affermarsi nei primi anni Duemila. Da questo punto di vista Lost, capostipite delle moderne serie TV, avrebbe rappresentato una versione della narrazione reticolare di cui avremmo cominciato a fare esperienza in quegli stessi anni navigando tra Myspace e Wikipedia (ne parlava, ad esempio, Alessandro Romeo qui).

Cosa è cambiato dieci anni dopo? Mi limito a sottolineare alcuni punti che mi sembrano interessanti.

A) Al modello di Lost, dove la libertà narrativa corrispondeva alla possibilità di far accadere di tutto, se n’è affiancato un altro, incarnato al suo meglio da Mad Men: ricostruzione storica, attenzione maniacale per i dettagli, sceneggiatura di altissimo livello, credibilità su tutto il fronte. Se i modelli di Lost erano Lovecraft e la fantascienza anni settanta quelli di Mad Men (2007) sono Richard Yates e Philip Roth. Lost sta al postmoderno come Mad Men sta al realismo (senza ovviamente che il primo sia completamente postmoderno o il secondo completamente realista). Gran parte delle serie TV successive al 2007, compresi cult come Breaking Bad, si situano in un punto di quel continuum.

B) L’incremento della produzione di serie TV ha avuto diverse conseguenze. Innanzitutto la dispersione del pubblico e di finanziamenti messi sul piatto dalle diverse emittenti televisive, quindi l’interruzione nella produzione di prodotti anche validi e seguiti dal pubblico (un caso su tutti quello che avrebbe dovuto essere l’erede di Lost, Flashforward). In secondo luogo al modello USA si è affiancato quello britannico, che ha dato alla luce prodotti di alta qualità (Misfits, Black Mirror, A Honourable Woman). La conseguenza di questa improvvisa popolarità del genere ha trasformato la serie TV da territorio indie e sperimentale a luogo di colonizzazione hollywoodiana, con l’ingresso nella produzione di registi come Steven Spielberg (Falling Skies) e attori come Dustin Hoffman (Luck).

C) Recentemente sul mercato si sono mossi soggetti diversi dalle tradizionali emittenti televisive, come Netflix e Amazon, che hanno cambiato un po’ le carte in tavola. Ad esempio la scelta di Netflix di rilasciare tutti gli episodi di House of Cards contemporaneamente mette in discussione il concetto stesso di serialità televisiva, riportando l’attenzione sullo sviluppo della trama piuttosto che su quello dei personaggi (meno libero in quanto maggiormente pianificato in partenza).

A tutto questo, credo, si è aggiunto il fatto che l’effetto innovativo della narrazione reticolare introdotto da Lost negli anni si sia andato affievolendosi, con il risultato di riportare in primo piano i contenuti rispetto alla forma con cui questi vengono raccontati. Così se da un lato la serie TV come mezzo si è consolidata nel panorama culturale, dall’altro il semplice fatto di saper manipolare in maniera efficace la serialità ha smesso di essere un punto a favore di per sé, condannando molti esperimenti televisivi a derive più o meno tristi. In un certo senso è come se a molte serie TV sia mancato improvvisamente il terreno sotto i piedi.

Il risultato più visibile di questa evoluzione mi sembra abbastanza chiaro: a sopravvivere e ad affermarsi in un panorama che è andato facendosi via via sempre più popolato sono state le produzioni finanziate da enormi capitali, che hanno riportato al centro un’idea di narrazione più tradizionale per ottenere maggiore audience: serie TV come House of Cards e Game of Thrones ne sono la dimostrazione. Da un certo punto di vista la serie televisiva indipendente, sperimentale e basata su uno storytelling reticolare ha perso, venendo soppiantata da un lato da grandi operazioni di stile hollywoodiano e dall’altra da operazioni raffinatissime dalla struttura più controllata (di nuovo A Honourable Woman). 

Paradossalmente, delle serie TV nate nella prima fase del mezzo, diciamo entro il 2010, mi sembra che sopravvivano con una certa vitalità due esempi diametralmente opposti: da una parte The Walking Dead, che riesce a mantenersi viva come in formalina grazie a un’opera di distruzione quasi radicale della trama (succede così poco che potrebbe andare avanti per sempre, come una biglia fatta rotolare su una superficie piana in assenza totale di attrito). Dall’altro lato una moderna soap opera come Downton Abbey, che nega i precetti della narrazione reticolare alla Lost con una pervicacia tale da rappresentare un esempio paradossale di ritorno a uno storytelling di tipo ottocentesco, affabulatorio ed emotivo, dove tutto però (posta la sospensione dell’incredulità che un’operazione del genere richiede) funziona alla perfezione, intrecciando con non poca maestria storia individuale, sociale e politica.

Dieci anni dopo la nascita della moderna serie TV, insomma, il mezzo è diventato né più né meno di uno dei tanti strumenti con cui comunichiamo e raccontiamo storie. Solo oggi forse ha raggiunto la sua maturità, e non ci sono segnali concreti, mi sembra, che ne facciano presagire un declino in tempi brevi. Ma il mondo inaugurato da Lost non esiste più, e per chi ha seguito questa stupefacente ascesa in tempo reale resta un po’ di amaro di bocca, la sensazione di una normalizzazione forse necessaria, ma anche, spesso, un po’ insoddisfacente. 

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