Faccio sempre fatica a rispondere alla domanda “Quali sono i libri migliori dell’anno?” perché la risposta presupporrebbe una conoscenza enciclopedica dei libri pubblicati in quell’anno e un eccesso di oggettività che andrà bene per le riviste ma ha poco a che vedere con la mia idea di critica letteraria. Le liste compilate da persone di cui mi interessa l’opinione invece mi piacciono anche se non stanno necessariamente sul pezzo. Quindi ho deciso di rispondere alla domanda “Quali sono i migliori libri che hai letto quest’anno?” dividendoli in categorie.
Libri pubblicati nel 2015

Quest’anno Einaudi ha pubblicato in Italia la Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer di cui ho scritto abbondantemente qui e qui. Mi ripeto in una riga: si tratta di un interessantissimo lavoro di derivazione lovecraftiana che sarebbe piaciuto a Roland Barthes per il discorso sul venir meno del processo di significazione nel mondo contemporaneo.
Sottomissione di Michel Houellebecq, un libro che nelle Top 10 italiane per qualche motivo compare pochissimo. Vero, per larghi tratti è una bozza di romanzo più che un romanzo vero e proprio e lo stile ne risente. Ma a volte mi sembra che si dia Houllebecq per scontato: condensare in 160 pagine un racconto genuinamente inquietante, una lucidissima analisi politica, un discorso letterario complesso e una trama avvincente richiede un talento enorme.
Al contrario esatto di Houellebecq, Nel mondo a venire di Ben Lerner, pubblicato da Sellerio, ha messo quasi tutti d’accordo. Giustamente: si tratta del lavoro che porta a maturazione l’autofiction come genere letterario e lo sgancia dal problema della realtà (per farlo ci voleva un poeta).
Marilynne Robinson ha pubblicato l’ultimo capitolo della sua trilogia di Gilead iniziata nel 2004: ho letto Lila nel 2014, ma visto che Einaudi l’ha tradotto quest’anno il libro rientra di diritto nella lista. Robinson è una scrittrice religiosa e nella letteratura contempornea è molto raro imbattersi in una prosa spirituale e paziente come la sua. Leggerla fa bene all’anima.
Sempre sul versante mistico-spirituale, Il libro delle cose nuove e strane, probabilmente l’ultimo romanzo di Michel Faber, è una riflessione dolorosa sulla fragilità della vita e delle cose che diamo per scontate. Se dalla storia di un prete che evangelizza gli abitanti di un pianeta esterno al sistema solare vi aspettate fantascienza classica non conoscete Faber e probabilmente non avete visto nemmeno Under the skin. Ne ho scritto qui.
Un piccolo libro pubblicato da Adelphi, Questa vita tuttavia mi pesa molto di Edgardo Franzosini, merita di essere menzionato: è la storia incredibile e triste dello scultore Rembrandt Bugatti e della sua breve vita a Parigi.
E per concludere Fine missione, la sorprendente raccolta di racconti di Phil Klay, un ex marine appena trentenne, anch’essa in Italia con Einaudi. I racconti di Klay si situano nella tradizione della prosa essenziale di Hemingway e Carver e in qualche modo la stravolgono, demolendo la profondità come concetto letterario e oscurando il senso in una cacofonia di abbreviazioni, sigle e termini tecnici.
Libri ri-pubblicati nel 2015

Minimum fax ha proposto una nuova edizione di Solo il mimo canta al limitare del bosco di Walter Tevis, originariamente pubblicato nel 1980, in Italia nel 1983 e l’ultima volta per Urania nel 2009. Racconta la storia di un futuro dove gli uomini non provano emozioni e i robot intelligenti soffrono ma non riescono a suicidarsi. Tevis è uno scrittore che ami o odi: tutto nella sua poetica tende alla malinconia, al congelamento, a un dolore lieve e sordo. L’idea di un mondo in cui è scomparsa la parola scritta è a mio modo di vedere molto più inquietante di tutti i distopici roghi di libri.
Esito invece un po’ a mettere tra i “libri” dell’anno L’esegesi di Philip K. Dick, tradotto per la prima volta in italiano da Fanucci. Mi ha divertito vedere la valanga di recensioni che hanno accolto l’usicta di questo lavoro enorme (1200 pagine) e informe (si tratta di una selezione dei quaderni scritti da Dick in un periodo di otto anni, dal 1974 al 1982, l’anno della sua morte), perché il testo è tutt’altro che roba per blog letterari: la cronaca di una visione mistica cristiano-tecnocratica. Però non bisogna essere fan di Dick come me per capire che si tratta di una pubblicazione molto importante.
Libri pubblicati NON nel 2015

Due dei libri fondamentali che ho letto quest’anno non sono stati pubblicati nel 2015 e sono stati scritti da italiani. Sono un romanzo e un saggio. Il romanzo
è La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro: non ho paura a dire che la vita di Ivo Brandani sta alla nostra epoca come quella di Svevo Cosini sta al modernismo di inizio Novecento. Pecoraro affronta tantissimi temi cruciali (la storia, la fine del concetto di natura, il rapporto tra Oriente e Occidente, il postmoderno, il caso) e lo fa con una scrittura matura, intelligente, profonda. Uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi dieci anni.
Il secondo
è un saggio di psicanalisi di un autore che non riscuote molte simpatie tra gli intellettuali italiani, Massimo Recalcati: al netto delle critiche per lo più molto superfiiciali sulla figura del suo autore, credo che L’uomo senza inconscio sia un lavoro assolutamente fondamentale per capire le radici del disagio contemporaneo. Con un’analisi originalissima che coniuga psicanalisi post-freudiana, meccanizzazione dei sentimenti e teoria della fine del desiderio, Recalcati ha scritto a mio parere uno dei libri fondamentali della biblioteca del XXI secolo.
Saggistica post-2000

Quest’anno ho letto due saggi di argomento storico. Il primo è Storia culturale del clima di Wolfgang Behringer, pubblicato dal Bollati Boringhieri nel 2013. Si tratta di una carrellata di respiro vertiginosamente ampio della storia del pianeta e dell’umanità dal punto di vista dei cambiamenti climatici, e dunque dell’apporto della geologia e delle scienze della Terra alla storia culturale. Propone una risposta interessante e non scontata a un problema che divide in fazioni contrapposte, quello del global warming.
Il secondo è Jihad: the trial of political Islam dello storico francese Gilles Kepel. L’ho letto dopo gli eventi di Parigi alla ricerca di un’analisi non banale del fenomeno terrorista e me l’ha fornita: raccontando la storia dell’Islam politico dal 1960 al 2001, Kepel rende chiare le differenze tra Islam (religione) e islamismo (movimento poltico), del quale il terrorismo
è solo la più estrema delle manifestazioni. Mi ha fatto capire che espressioni come “musulmani moderati”, che usavo per primo, non hanno senso. Inoltre mi ha colpito vedere tanti parallelismi tra l’emergere dell’islamismo come movimento rivoluzionario e giovanile negli anni 60 e i movimenti rivoluzionari giovanili degli anni 60 occidentali, un tema che meriterebbe di essere approfondito.
In ambito critica letteraria segnalo Memoir: a history di Ben Yagoda: se vi interessa sapere cos’è il memoir, questo genere letterario di cui tutti parlano, da dove viene e quando
è esplosa la mania contemporanea, la documentatissima analisi di Yagoda
è il libro che fa per voi.
Saggistica: un classico

L’estate scorsa mentre facevo la coda a Wimbledon ho finalmente letto Tennis di John McPhee, che contiene il classico Levels of the game del 1969. McPhee viene generalmente considerato tra gli iniziatori della saggistica narrativa. I due saggi che compongono questo lavoro seminale sono entrambi bellissimi anche se non vi piace il tennis, e a me il tennis piace molto.
Le delusioni

Sono due ed entrambi saggi. Dopo anni sono riuscito finalmente a leggere per intero Postmodernismo: ovvero la logica culturale del tardo capitalismo e ho scoperto che Fredric Jameson e io non ci capiamo: un peccato, visto che il postmodernismo
è uno dei miei argomenti preferiti, lui
è tra i principali critici letterari viventi e scrive di cose che sulla carta mi piacciono molto, dalla fantascienza al realismo. Purtroppo però
per quanto impegnio ci metta riesco a cavare davvero poco senso dalle sue frasi involute. Credo che Jameson sia molto intelligente e scriva molto male, da qui la confusione.
Il secondo è Introduzione al buddismo zen di D.T. Suzuki per motivi parzialmente simili. Sono abituato a considerare, sulla scorta di Jung, Suzuki come l’autorità massima in campo di zen, e non è il primo dei suoi lavori che leggo in italiano o in inglese. Di nuovo, il senso delle frasi di Suzuki mi arriva molto difficoltosamente. A differenza di Jameson bisogna però dire che lo zen
è un concetto molto difficile da trasmettere intelletualmente, e non per niente la maggioranza dei libri in circolazione scritti da occidentali sono composti di semplici massime ed esercizi, utili da un punto di vista pratico ma poco illuminanti da un punto di vista teorico. Suzuki ha il merito di aver provato quest’opera di traduzione già negli anni 30. Il fatto che da allora l’esperimento non sia stato ritentato forse significa qualcosa.