Tra i saggi di Manhood for Amateurs di Michael Chabon (Harper, 2009; in Italia è arrivato per Rizzoli nel 2010 con il brutto ma forse necessario titolo Uomini si diventa), uno dei più interessanti è quello dedicato all’evoluzione dei Lego dagli anni Sessanta a oggi, “To the Legoland Station”. Chabon, che è nato nel 1963, ricorda così i mattoncini della sua infanzia:
When I first began to play with them in the late 1960s, Legos retained a strong flavor of their austere, progressive Scandinavian origins. Abstract, minimal, “pure” in form and design, they echoed the dominant midcentury aestethic, with its emphasis on utility and human perfectibility.
I Lego, prosegue Chabon, erano venduti solo nei sei colori puri, e le minifigs (i personaggi) erano senza volto: uno spazio lasciato libero per l’immaginazione, «funzionale, utopico, semi-immaginario, astratto». Poi continua scrivendo:
They were a lineal descendant of Friedrich Fröbel’s, famous “gifts”, the wooden stacking blocks that influenced Frank Lloyd Wright as a child, part mathematics, part pedagogy, a system – the Lego system – by which children could led to infer complex patterns from a few fundamental principles of interrelationship and geometry.
Come fabbrica la Lego esiste dagli inizi del Novecento, ma i famosi mattoncini vengono prodotti dal 1958: la guerra era finita da un pezzo, la ricostruzione era in stadio avanzato in tutta Europa e il boom economico stava aprendo la strada alla società dell’informazione (il primo testo a parlare esplicitamente di “economia della conoscenza” è The Production and Distribution of Knowledge in the United States dell’economista Fritz Machlup, 1962). Significativamente, la stessa idea al contempo matematica e utopica, focalizzata sulla formalizzazione delle serie tanto quanto su una sincera spinta progressista, a qualche migliaio di chilometri di distanza dalla Danimarca stava portando alla nascita dei primi computer nei laboratori del Mit di Boston e in quelli più visionari della Baia di San Francisco.
Chabon coglie molto bene l’ambivalenza dell’ingresso di una tale idea nelle case delle persone, nelle mani dei bambini. All’enorme invito alla creatività e alla libera espressione personale che sottende l’idea dei Lego corrisponde anche un’astrazione davvero matematica, la stessa che secondo studiosi come Armand Mattelart (Storia della società dell’informazione, Torino, Einaudi, 2002) è il vero segno impresso dalla modernità sulle società occidentali: quel processo di normazione e riduzione alla “numinosità del numero” (l’espressione è di Jung) che da Leibniz prima e dalla Rivoluzione Francese poi conduce fino a Google, attraversando trecento anni di storia.
E Google mi è tornato in mente, leggendo “To the Legoland Station”, anche quando Chabon paragona i mattoncini degli anni Sessanta a quelli di fine anni Novanta:
By the late nineties […] abstraction was dead. Full-blown realism reigned supereme in the Legosphere. Legos were sold in kits that enabled one to put together – at fine scales, in deatail made possible by a wild array of odd-shaped pieces – precise replicas of Ferrari Formula I racers, pirate galleons, jet airplanes. Lego provided not only the standard public-domain play environments supplied by toy designers of the past fifty years – the Wild West, the Middle Ages, jungle and farm and city streets – but also a line of licensed Star Wars kits, the first of many subsequent ventures into trademarked, conglomerate-owned, pre-imagined environments.
Leggendo queste righe ho pensato a come si è evoluto il panorama dell’informazione dai tempi in cui i primi pionieri del personal computer realizzavano le loro macchine dei sogni nei primi anni Sessanta: a come la diffusione delle applicazioni per dispositivi mobili stia mettendo in crisi il modello libero del web, ai “giardini chiusi” e rigidamente regolamentati imposti dai social network, ma anche al grado di dettaglio sempre maggiore a cui puntano le nuove tecnologie informative (il 3D, le fotografie in alta risoluzione, gli occhiali e le mappe terrestri e oceaniche di Google).
E al rischio che si corre di ritenere una determinata rappresentazione “reale” perché il grado di granularità informativa è così elevato: in fondo, per quanti dati possiamo aggiungere, pur sempre di un simbolo si tratta, e come insegna Borges una mappa grande quanto il territorio che vuole rappresentare non è più fedele, è soltanto inutilizzabile. L’utopia geometrica dei lego anni Sessanta conteneva in sé la promessa di un mondo migliore, ed esplicitava il sacrificio collettivo richiesto per beneficiare di questo progresso (le minifigs senza volto). Il moderno nuovo realismo promette l’esaurimento sistematico di ogni spazio vuoto, l’appiattimento a livello della superficie, la performance totale. Abbiamo conservato la matematica, ma abbiamo perso l’utopia.