Si fa presto a dire che c’è negli articoli di Francesco Pacifico si respira aria da dandy, che se la critica dall’esterno è una roba da adolescenti comunisti quella dall’interno è una critica solo a metà, che la consapevolezza postmoderna ha rotto le scatole: sarà anche vero, ma un pezzo che centra il punto come quello pubblicato su “IL” qualche giorno fa lo si legge raramente, e vi sfido a dire il contrario. Pacifico poi si pone un paio di domande oggettivamente importanti, come ad esempio questa:
Siamo cresciuti nella borghesia: come possiamo continuare a rimuoverla dal discorso pubblico, a rappresentarci come fossimo nati in un falansterio?
Già, come possiamo? E perché lo facciamo, voglio dire profondamente, le ragioni reali, inconfessabili? Chissà che poi oltre alla specificità italiana non ci sia un moto per così dire globale: se ci fate attenzione vi accorgete che facciamo finta che non esistano tante cose, i marchi di moda giovanile fanno finta che non ci sia distinzione tra uomini e donne, i talent show fanno finta che non ci sia differenza tra chi è dotato e chi no, le distinzioni culturali sembrano sempre razziste agli Uomini Buoni in ogni latitudine del mondo civilizzato.
Tutto questo mi fa tornare in mente un bellissimo libro di Franco La Cecla letto qualche anno fa (Saperci fare. Corpi e autenticità, elèuthera, 2009) che poneva l’accento proprio sull’enfatizzazione delle differenze come metodo di relazione proficua con l’altro, un tema che l’antropolgo-architetto siciliano ha portato avanti anche nei suoi libri successivi. Oppure, tornando a Pacifico, mi viene in mente Walter Siti che parla della “borgatizzazione della borghesia”. Una borghesia che si vergogna di sé stessa e un proletariato che vota Berlusconi da vent’anni mi sembrano un buon punto di partenza per riflettere sulle ragioni psicologiche dell’impasse di creatività che sta trasformando la crisi economica italiana in una catastrofe.
(Foto: una scena del Fascino discreto della borghesia, di Luis Buñuel, 1972)