
Sul penultimo Espresso, il numero 27, è uscito un articolo a firma di Carla Benedetti sul tema dell’editing letterario. L’articolo sosteneva una tesi abbastanza accettata dalla morale comune: quella dell’editing è un’operazione commerciale che ha senso soltanto in un sistema letterario industrializzato come il nostro, l’editing livella tutti gli scrittori uniformandoli ad un unico stile per così dire “vendibile”, l’editing mortifica la creatività individuale in nome di un mercato letterario sempre più omologato e scadente.
Mi pare indubbio che tutte le perplessità sollevate dalle Benedetti siano più che legittime: il problema insito nella questione sta però secondo me da un’altra parte.
L’omologazione stilistica e tematica della narrativa contemporanea è sotto gli occhi di tutti, ed è senza dubbio un grave difetto dell’industria culturale in generale e libraria nello specifico. Mi sembra però che questa omologazione non sia tanto frutto dell’editing in sè quanto di un cattivo editing, un editing miope, che contraddistingue buona parte dell’editoria nostrana (negli USA la questione è molto diversa).
Quello che voglio dire è questo: è indubbio che un editing malfatto (un editing mosso soltanto da mire commerciali e che non rispetta l’identità del libro e dell’autore editato) produca effetti catastrofici nel panorama letterario. Ma il mito dello scrittore autarchico, che pensa, scrive, edita e poi magari anche pubblica e promuove il proprio prodotto mi sembra un residuo di romanticismo e poco più. Non si capisce bene perché, in un mondo dove la cultura si è fatta “collettiva piuttosto che individuale” (cito Hobsbawm,”Il Secolo Breve”), dove i registi non tengono più in mano la macchina da presa e dove i musicisti producono gli arrangiamenti insieme ad un’equipe di tecnici, gli scrittori dovrebbero essere condannati a questa terribile tortura dell’autosufficienza.
La questione molto banale mi sembra una sola.
Fino all’800 chi scriveva proveniva da famiglie ricche o quantomeno agiate, e aveva tutto il tempo di questo mondo per dedicarsi (tra una caccia alla volpe e l’altra) alle successive riscritture del proprio elaborato. Ancora fino ad una quarantina d’anni fa scrivere era un vero e proprio mestiere, tant’è che la gente non si vergognava affatto di mettere sulla porta di casa la dicitura “Tal dei Tali – Scrittore”.
Oggi di scrittura non si vive, come non si vive di nessun altro tipo d’arte, a meno di non rientrare in una cerchia di eletti autori di best-seller di vario tipo e genere. Tutti noi che abbiamo meno di 40 anni sappiamo bene che per risicare uno stipendio minimo alle necessità primarie ci tocca lavorare molte ore al giorno, spesso in condizioni proibitive e senza alcuna sicurezza riguardo al fatto che lo stipendio ci sia anche domani e non solo oggi.
Come si può chiedere a chi scrive di avere la forza (oltre che il tempo materiale) di seguire il processo di scrittura in tutte le sue fasi? Non è già un miracolo che in tempi di precarietà, co.co.co., salari minimi e crisi economica ci sia ancora chi ha voglia di mettersi a fare qualcosa che sia privo di un diretto tornaconto materiale?
Si potrebbe dire che era meglio una volta, che la creatività dei poeti maledetti e degli avanguardisti era genuina perché non mediata dal mercato e che la scrittura d’oggi non è che un pallido riflesso filtrato centinaia di volte al setaccio del talento del singolo. Ma qui, come in ogni discorso di questo tipo, casca l’asino: è probabile che molti di noi siano convinti che sia il sistema capitalista tout court a non funzionare, ma dirsi marxisti nel 2009 suona un po’ ridicolo indipendentemente dall’idea politica di ciascuno.
La Benedetti riporta nel suo articolo il caso eclatante di Carver e delle infinite differenze tra la versione editata della sua seconda raccolta (“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”) e la versione originale dello stesso testo (“Principianti”, da poco pubblicato da Einaudi). Ma è anche vero che senza i tagli assassini di Gordon Lish non sarebbe esistito quel minimalismo che ha segnato tanta letteratura contemporanea.
Che piaccia oppure no sarà il caso di rassegnarsi alla realtà, cioè al fatto che questo nostro mondo è diventato troppo infinitamente complesso perché le forze di un singolo essere umano siano sufficienti per gestirlo in tutte le sue multiformi sfaccettature.
Nel caso specifico mi pare che un mondo privo di editor sarebbe un mondo di scrittori approssimativi e incompleti, mai pienamente realizzati: il che sarebbe altrettanto triste di un panorama come purtroppo è in larga parte quello italiano (quello reale, però) fatto di scritture esangui e di scrittori usa e getta. Concerne il tanto decantanto “principio di realtà” anche l’umiltà di lasciarsi aiutare unita alla fierezza di non farsi ingoiare e vomitare da un ingranaggio onnivoro com’è quello editoriale.
Se questo venisse compreso da scrittori ed editori, e dai lettori soprattutto, forse si aprirebbero nuove possibilità per la scrittura, possibilità autentiche.
In fondo Vivianne Westwood non sarebbe mai diventata Vivianne Westwood senza i Sex Pistols, ma chi si ricorderebbe oggi dei Sex Pistols se non fosse esistita Vivianne Westwood?
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