Sul “carverismo”

Rispondo qui di seguito all’articolo di Giulio Mozzi e alla risposta di Giorgio Fontana (rintracciabili rispettivamente qui e qui) sul “carverismo” e sulle problematiche inerenti all’interiorità psicologica dei personaggi narrativi. Vado per punti, come al solito, perché mi è più comodo.

1. Ciò che Fontana definisce “carverismo” non ha nulla a che vedere con Raymond Carver. Lo dice lo stesso Fontana (“normalmente, il nume protettore di questa poetica è indicato in Raymond Carver – ma non è con lui che ce l’ho”) ma qualche precisazione è utile lo stesso per comprendere quanto segue. Il vero dramma della ricezione critica e di pubblico dell’opera carveriana è proprio l’affermarsi a livello globale di questa poetica del “carverismo” (che altrove è stata chiamata “minimalismo” o “neorealismo”: nomi diversi per indicare la stessa cosa). Il minimalismo delle origini (cioè Carver ma anche Amy Hempel, Bobbie Anne Mason, Richard Ford eccetera) era qualcosa di molto più complesso del “carverismo” dilagante oggi nella narrativa mondiale (e non solo nordamericana). Non proponeva assolutamente, cioè, quello che critici e lettori hanno creduto che proponesse, vale a dire questa famigerata assenza di referenti psicologici nei personaggi narrativi. I minimalisti si proponevano di rifiutare il “credo” postmoderno dell’iper-psicologismo (con i suoi annessi e conenssi di flussi di coscienza e realtà totalmente intra-psichiche alla Bourroghs, per intenderci) per proporre una letteratura che fosse di nuovo vicina alla realtà concreta delle persone (e negli anni 70-80 la realtà concreta erano il neoliberismo, la disoccupazione, la crisi petrolifera, la crisi di valori seguita alla fine delle lotte politiche e all’emergere del nuovo edonismo mediatico; per dirla con Carver stesso: “the dark side of Reagan’s America”). In Carver specificamente il viaggio all’interno della psiche dei personaggi viene spesso e volentieri sostituito da nessi semantici che ricolleghino la superficie (l’azione o la percezione) al profondo (la psiche) in maniera istantanea, nell’arco per esempio di una parola o di una frase. Vi faccio un esempio. Il racconto So much water so close to home è la storia dell’identificazione di una donna con una ragazza violentata, uccisa e buttata in un fiume (con la quale la donna si sente empaticamente vicina perché vive il rapporto con suo marito proprio come violenza e stupro quotidiani). Invece di raccontarci tutto il tortuoso percorso dei pensieri della donna (che si chiama Claire), Carver preferisce restare sulla superficie e nell’ultima scena, quando Claire si concede sessualmente al marito che non ha smesso di odiare, ecco cosa accade: il marito la tocca; Claire si spoglia da sola (evidenziando il valore sacrificale del suo gesto); il marito dice qualcosa che lei non sente perche “non riuscivo a sentire niente”, dice, “con tutta quell’acqua a due passi da casa”.

2. In Carver questo utilizzo dei nessi semtnatici non era una semplice questione di stile. Come tutti sanno la scrittura carveriana deriva direttamente da quella di Hemingway, con la differenza che (com’è stato fatto notare da più parti) in Hemingway ciò che rimane fuori (i sette-ottavi dell’iceberg) è qualcosa in cui lo scrittore crede profondamente (un sistema di valori e credenze universali), mentre in Carver, scrittore postmoderno, ciò che si trova al di sotto della superficie è qualcosa di molto più instabile (essendo tramontati gli ultimi “grandi” valori novecenteschi) e dunque è in sostanza il rischio che al di sotto della superficie non ci sia altro che il vuoto o l’abisso. Letta in questa maniera “storica”, la narrativa carveriana può essere vista come una fortissima critica ad un preciso sistema socio-politico (il capitalismo neoliberista) che scollegando irrimediabilmente l’essere umano dai suoi reali bisogni e imponendogliene altri (che sono i valori della pubblicità) genera mostri schizofrenici, scenari psichici dove regnano il risentimento e la vergogna e attraverso i quali va facendosi strada una violenza sempre più brutale e incontrollata (proprio perché non compresa e rimossa). In altre parole il discorso di Carver è prettamente psicologico nel senso più specialistico del termine: mostra e a volte dimostra come la psicologia dell’uomo moderno sia frantumata e incapace di reagire all’oppressione che il mondo esercita sul singolo, e come da questa impasse non derivi che odio e violenza. Dopodiché per approfondire il discorso ci sarebbero da citare René Girard e la sua teoria del desiderio mediato, ma non è questo il luogo per farlo.

3. Il “carverismo” di cui parla Fontana è naturalmente una semplificazione, una banalizzazione e anche una versione “volgare” della scrittura minimalista, e ciò per un semplice motivo: perché Carver utilizzava la (apparente) assenza di psicologie proprio per mostrare l’incapacità degli esseri umani a rapportarsi con un contesto storico violento (i suoi personaggi soffrivano della loro incapacità di comunicare con l’Altro e da quella sofferenza rifiutata nasceva rancore e odio; Carver faceva dunque un atto di critica sociale, seppure in maniera “obliqua”), mentre i nuovi “carveristi” si trovano perfettamente a loro agio nell’eludere (questa volta per davvero) le istanze psicologiche e a vivere la propria scrittura ad un livello prettamente superficiale, dove il profondo non è occultato ma semplicemente non c’è (dunque fanno un’opera di adeguamento al sistema sociale in cui vivono, diventano leggeri, vuoti e superficiali proprio come una bella pubblicità di automobili). In altre parole nei minimalisti le istanze psicologiche non erano esplicitate, ma esistevano eccome. In Carver in particolar modo, le motivazioni profonde dei personaggi seguono una logica (naturalmente emotiva e non razionale nel senso “positivista” del termine) ferrea. Molti di coloro che oggi dicono di amare la scrittura carveriana e cercano di imitarla semplicemente non hanno compreso un bel niente di quella scrittura, o meglio l’hanno fraintesa e ne apprezzano, paradossalmente, l’esatto contrario. Che si veda o non si veda la psicologia nei minimalisti permane in maniera “forte”, e non basta non vedere qualcosa (come pensano i nuovi “carveristi”) perché quella cosa non esista. In altre parole sono loro ad essere ciechi: ciò che non vedono esiste e non lo percepiscono solo a causa di una preoccupante miopia.

4. Giulio Mozzi sembra in effetti condividere qualche punto di partenza con la psicologia comportamentista che, come dice giustamente Fontana, si è rivelata un bel fallimento già una trentina di anni fa. Sembrerebbe dire: esiste solo ciò che si vede, il che è il rovescio della medaglia di un’altra affermazione: ciò che non si vede non ha grande importanza. Questo secondo me è sbagliato, e ben più pericoloso che tentare un viaggio nell’intra-psichico del personaggio sul quale si lavora. Il rischio vero è naturalmente quello del vuoto, o più chiaramente quello di creare un personaggio che agisce senza sapere perchè, senza nessuna vera ragione per farlo – esattamente come si sente dire al TG quando si parla di una strage in famiglia: “non capisco perché, non c’era nessun motivo, era una così brava persona..” Ora, o si pensa che tutti gli stragisti di famiglie sono dei pazzi scatenati, oppure ci si convince che quel gesto violento è la risultanza di una serie di frustrazioni e violenze che l’aspirante omicida ha provato sulla sua pelle prima di compiere il gesto. Lo stesso vale per i personaggi di un racconto: o hanno buoni motivi per fare quello che fanno (e i buoni motivi sono sempre psicologici, derivando sempre e per forza da spinte emotive) oppure non li hanno (e in questo caso ciò che stiamo scrivendo diventa l’ennesimo romanzo di Moccia). Poi che si decida di mostrare queste istanze psicologiche (utilizzando pagine e pagine per raccontare i turbamenti del personaggio) o che si decida di lasciare “sott’acqua” questa mole di movimenti inconsci è una questione di stile narrativo, e ognuno è liberissimo, a mio modo di vedere, di fare ciò che più desidera. Mozzi non è molto chiaro, a mio avviso, nell’esprimere il proprio parere. Pensa che sia meglio lasciare sommerse le istanze psichiche dei personaggi? O pensa che l’azione venga prima del pensiero, in maniera dunque pressoché scollegata dall’intimità del personaggio? Perché se la pensa come al punto 1 sono d’accordo, se la pensa come al punto 2 credo che proporre questa visione come “meno rischiosa” sia un grosso rischio: candida forse non Mozzi (che è scrittore di riconosciuto talento) ma certamente le nuove leve di “carveristi” a diventare stragisti di famiglie della propria narrativa e, peggio ancora, a produrre una scrittura fondamentalmente supina e allineata con il mondo delle mode (che su questa apparenza di casualità e sulla seduzione che ne deriva incentra tutto il suo potere).

In sostanza, e per concludere, scinderei in due la questione. Da una parte coloro che credono (ma sarebbe meglio dire “sanno”) che ogni azione umana deriva da moti psicologici e più specificatamente emotivi, e che dunque non può esistere alcuna azione che venga prima dell’emozione da cui l’atto scaturisce. E dall’altra chi non sa, o decide di ignorare (o trova più comodo ignorare per motivazioni commerciali e sociali) tale onnipresenza di moti intra-psichici nelle azioni umane – e che dunque produce racconti in cui la psiche dei personaggi è stereotipata o contraddittoria o “minimalista” nel senso più brutto del termine, e in cui le azioni avvengono fondamentalmente per caso. (Il che, lo dico per inciso, non è tanto raro come potrebbe sembrare. Al di là dei pessimi narratori – cioè dei narratori che sono riconosciuti pessimi da tutti o quasi – anche una buona fetta di narratori abbastanza apprezzati da critica e pubblico si rifanno implicitamente a questo “diktat” dell’anti-psicologismo, con risultati a mio avviso disastrosi. E in questo caso la questione non arriva neppure a tangere lo stile narrativo in sé, ma si ferma alla differenza basilare tra uno sguardo superficiale e uno sguardo in profondità nei confronti delle cose del mondo.) Nel primo gruppo poi troveranno posto tanto coloro che preferiscono soffermarsi a descrivere ogni sfumatura emotiva dei loro personaggi quanto chi, come per esempio Carver (ma anche il sottoscritto), pensano che la superficie dell’azione sia più che sufficiente per comprendere e descrivere il “profondo” che ne sta alla base. Questa è una questione di stile letterario e mi pare che lo specifico posto che ciascuno occupa all’interno della scala di sfumature sia una scelta dettata dal semplice gusto personale. Ciò che resta a mio parere fondamentale è (ma lo era già ai tempi di Hemingway, e in questo le similitudini con Carver si accentuano notevolmente) che ci sia grandissima chiarezza, da parte di chi scrive, su ciò che resta fuori dal racconto, su ciò che si nasconde al di sotto della superficie del testo, sui “sette-ottavi di iceberg che si trovano sott’acqua”. Il che è un altro modo per dire che la superficie va benissimo purché sia la risultanza di un percorso nella profondità: perché la superficie in sé stessa (la superficie come unico orizzonte possibile) significa solo assenza di spessore e nient’altro. E se private di quello spessore vitale anche le azioni dei personaggi perdono radicamento e potenza e, molto spesso, smettono improvvisamente di significare.


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9 risposte a “Sul “carverismo””

  1. d’accordo su tutto, direi. analisi lucidissima come sempre.

    una sola nota a margine: scegliendo il termine “carverismo”, temevo che il lettore sarebbe stato molto più portato a leggere le lettere carver- che le lettere -ismo: e forse per questo è stata una scelta infelice. perché volevo proprio parlare dell’-ismo.

    g.

  2. sì lo so.
    infatti all’inizio mi stavo già pregustando il piacere di un bel pezzo di vibranti proteste, poi ho letto il tuo articolo e ho visto che il centro era proprio l’-ismo.
    meglio così, visto che sto già a litigare sull’altro post qualche decina di centimetri in basso..

  3. Notevole. Volevo scrivere un commento, ma poi è andata a finire che ho scritto un post sul mio blog, sempre su Carver e il “carverismo”. Perdona la “copiatura”, ma se scrivi cose così gravide di spunti per altre riflessioni devi mettere in conto che quelli come me ne approfittino.

    À bientôt, carissimo.

  4. a marco (innanzitutto piacere di ospitare i tuoi commenti su questo blog!): sì, sarebbe sicuramente interessante mettere a confronto una stessa storia esposta in maniera “fattuale” e “psicologica”. ancora più interessante però sarebbe secondo me un altro esperimento (che credo potrebbe chiarire bene il senso del mio pezzo): fornire una stessa storia “fattuale” (in sostanza una sequela di azioni: paolo si alza; paolo esce di casa ecc.) ad uno scrittore X e ad uno scrittore Y; mettere al corrente X dei motivi profondi per cui paolo fa ciò che fa e lasciare invece Y all’oscuro di queste motivazioni profonde (o più verosimilmente fornire a Y una visione parziale del substrato psicologico dei personaggi). e confrontare poi i due testi..
    questo secondo me è il vero problema di ciò che giorgio ha chiamato “carverismo”: uno sguardo superficiale sui propri personaggi, sulla storia che si racconta e anche suoi motivi profondi per cui chi scrive decide di raccontare una storia.
    e questo (aggiungo, visto che forse nell’articolo non risultava molto chiaro) è un problema che coinvolge non solo i cosiddetti “narratori minori”, tutt’altro! faccio un esempio: qualche sera fa ho rivisto dopo anni “ultimo tango a parigi” e l’ho trovato terribilmente brutto (la prima volta mi era piaciuto molto). mi sono chiesto: perché la schneider si mette a far sesso con uno sconosciuto? e perché alla fine lo uccide? qual’è la funzione narrativa del fidanzato regista di lei? e non sono riuscito a trovare alcuna risposta..
    al contrario il libri di uno scrittore come baricco (che non mi piace nella maniera più assoluta) danno al lettore un’impressione di compiutezza e armonia – insomma sembra che le cose avvengano per un motivo ben preciso.
    chiudo con un ultimo spunto: anche qualora i motivi per cui accadono le cose possano sembrare contingenti e casuali (come per esempio in carver) nella realtà dei fatti non è mai così: se questa casualità prende il sopravvento sulla storia, ecco allora che la narrazione smette di funzionare. il confine è molto sottile e spesso difficile da individuare, e proprio l’incapacità di vedere con chiarezza questa “linea rossa” è ciò che separa a mio avviso i “minimalisti” dai “carveristi” di cui parlava giorgio..

  5. Frenzen ripose con grazia gli occhiali sul piccolo tavolino laccato, accanto alla poltrona.
    Copriti, stamattina fa più freddo del solito, disse.
    Se per questo, rispose Lisa, guardandolo dal riflesso della sua immagine nella grande specchiera davanti all’ingresso, anche stanotte ho avuto bisogno di prendere un’altra coperta.
    E’ finita anche questa estate, disse Frenzen.
    Ma ormai Lisa era già oltre la porta di casa, che si chiuse sul suo ciao bisbigliato.
    Fuori pioveva.
    Il rumore dell’auto di Lisa, arrivava attenuato insieme al fruscio indistinto delle fronde degli alberi e a quello delle foglie dì magnolia, secche, che ingombravano il viale.

    Frenzen tornò alla lettura del giornale. Riprese gli occhiali dal tavolino e insieme, la tazza del caffè ancora fumante.

    Diede una rapida occhiata solo ai titoli. Poi, facendo appello a tutte le sue forze, si levò dalla poltrona, scostò appena le tende della grande vetrata che affacciava sul retro del giardino, e rimase a fissare, immobile, un grande uccello dalla chioma grigia, con striature di nero, che passeggiava sul prato. Rimase a guardarlo per un po’. L’uccello procedeva a scatti. La sua mole non gli impediva una certa grazia dei movimenti. Avanzava per piccoli saltellì per poi arrestarsi di colpo e, velocissimo, beccare qualcosa fra i fili dell’erba del prato.

    Mentre si chiedeva cosa diavolo avesse da beccare, l’uccello, come fosse dotato di un sesto senso, si girò verso la casa, e i due rimasero per un po’ a guardarsi, ognuno nella direzione dell’altro.
    Frenzen era convinto di non aver mai visto un uccello cosi grande, prima di allora, prendersi la libertà di scorrazzare nel suo giardino. Le gocce di pioggia sul vetro della finestra, contribuivano a rendere l’immagine sfocata. Un tempo sospeso, rotto solo dalla lenta discesa dell’acqua in mille fili disordinati,
    Frenzen andò in bagno, il rumore dello scarico riempì la casa, coprendo il suo passo stanco e strascicato verso la poltrona.. Si sedette, e con un certo sforzo, aiutandosi con le gambe, la orientò verso la finestra. Guardò di nuovo verso il prato. L’uccello non c’era più.

    Bene, cosa abbiamo da capire da un brano cosi ?
    Che chi l’ha scritto è piuttosto depresso, prof. Una risata generale riempì la sala.
    A parte questo, cosa c’è che non va ? Avanti, qualcun’altro ?
    Che si perde troppo nelle descrizioni.
    Non bisogna essere contrari alle descrizioni, in senso generale, spiega meglio, cos’è che non funziona ?
    Che non c’è ritmo, prof. Sembra come una telecamera, ma poi anche le considerazioni dell’autore che alterano la percezione spontanea del lettore.
    Ah, ci siamo, spiega meglio.
    Forse intende dire che è meglio se il racconto fosse ancora più asciutto, prof.
    Si, che non si senta che c’è un autore che ci mette del suo quando invece vuole sembrare il più asettico possibile.
    Ragazzi siete fantastici.

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