perfetti

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Poi le cose erano cambiate. Qualcosa si era rotto, da qualche parte. Si sentiva stanco. La notte faceva incubi terribili in cui le figure del suo passato si decomponevano come ombre. Aveva paura.
Sapeva che non sarebbero mai dovuti partire, e la consapevolezza non faceva che peggiorare le cose. Il mare, la terra arida, il vento, non facevano che peggiorare le cose. Avrebbe voluto essere a casa, nel suo appartamento al quarto piano, con il rumore rassicurante del camion della nettezza urbana. Con le auto in coda, i semafori, la pioggia. Non poteva sopportare tutto quel dolore sotto il sole d’agosto. Era fuori luogo, lo faceva sentire in colpa.
Lei, Marta, si sentiva pressappoco come lui. Quando riuscivano a guardarsi negli occhi vedevano sgomento, e tristezza. La sensazione era quella di affogare. I gesti sicuri con cui lei si truccava la mattina avevano smesso di provocargli un’eccitazione latente che sarebbe proseguita per tutta la giornata. Gli parevano meccanici, vacui. Le gonne nuove che indossava sopra il costume erano prive di colore. Quel corpo aveva smesso di emanare luce. Le insegne delle farmacie segnavano quaranta gradi e lui sentiva freddo. Quel gelo l’avrebbe risucchiato, anche lui come gli altri si sarebbe trasformato in un’ombra. Solo l’immagine bastava a terrorizzarlo.
Nei lunghi momenti di solitudine fissava il mare e provava a pensare. Cos’era successo? E quando? Perché un tempo loro due erano stati perfetti. Erano rimasti perfetti per quattro anni. Leggeri. Innamorati. Lievi come pezzi di carta colorata, capaci di illuminare tutto il grigio di Torino con la loro semplice presenza. Gli ospiti d’onore di tutte le serate migliori. Loro due, e nessun altro. Loro. In una parola, perfetti.
Poi erano cominciati i sogni. Lande desolate popolate da esseri informi. Le case bruciavano. La terra sembrava sciogliersi sotto i piedi.
Inizialmente non ci aveva badato. Faceva il fotografo, ed era sempre stato convinto che le fotografie avessero a che fare con la realtà. I sogni non c’entravano. Lei era la sua modella d’eccezione, gli scatti di quelle gambe lunghe erano finite sui cartelloni pubblicitari di mezza Europa. Erano solo sogni. Sarebbero tornati da dov’erano venuti.
Era cominciata così. Poco più di niente. Immagini volatili. Sensazioni. E poi si erano allontanati, senza nemmeno sapere perché. Una sera lei gli sembrava troppo truccata. Un’altra sera gli appariva sciatta. Si sentiva solo. Cominciava ad avvertire un freddo inspiegabile dentro le ossa. Divideva il letto con un’estranea, l’idea di affondare il viso nei suoi umori corporei a volte bastava a turbarlo. Quando lei usciva a fare la spesa si stendeva sul letto e si masturbava senza pensare a niente. Orgasmi tristi che avevano l’unico risultato di peggiorare il suo morale.
Non c’era niente, da nessuna parte, il vuoto completo.
Stavano scomparendo, ne era certo. Qualunque cosa volesse dire scomparire.

Adesso si trovavano nella Corsica del nord-ovest, in una zona desertica lontana dal mare. Avevano scelto la Corsica perché erano affascinati dalle isole e il deserto perché erano affascinati dal nulla. Ne avevano parlato per un intero inverno, prima che cominciassero i sogni. Quando alla fine si erano imbarcati era stato per salvare il salvabile, o almeno così pensavano. L’albergo era già stato pagato da mesi, e avevano evitato di farsi troppe domande.
Il luogo dove si trovavano non aveva nome, se ce l’aveva non era scritto da nessuna parte. Era una pensione a gestione familiare, persa nella campagna più arida che avessero mai visto. Suggestioni lunari, o da vecchio spaghetti-western psichedelico. Non c’era connessione telefonica e la corrente elettrica proveniva da un generatore autonomo. La prima pozza d’acqua salata si trovava a mezzora di strade tortuose in direzione nord-est, come anche il primo centro abitato. Nessun rumore, mai. Se trattenevi il respiro sentivi il sole bruciare le rocce. Gli uccelli neri che vedevi in lontananza potevano benissimo essere condor, niente di più probabile.
A mantenere vivo quel luogo senza tempo erano in tre. Un corso ruvido, con la faccia da cinghiale. Il figlio. E lei, la ragazza bionda che rifaceva le camere e aiutava in cucina, senza un nome per quanto lui si sforzasse di chiederglielo, praticamente muta. Quella ragazza lo attraeva. I polpacci spessi, la fronte bassa, lo sguardo caprino. Bella forse, non avrebbe saputo dire. All’inizio immaginava di fotografarla nuda, a quattro zampe, su una roccia. L’immagine lo lasciava perplesso, ma lo distraeva dal panico. Certamente quella donna non era un’ombra. Era già molto.
Dopo la prima colazione all’aperto, riparati da un gazebo di lino, lui l’accompagnava al mare. Marta e il mare avevano qualcosa in comune, l’aveva sempre pensato. Una certa fluidità, e anche violenza burrascosa. Ora, quando la vedeva scomparire sotto le onde, temeva che non sarebbe più riemersa. Se loro due non erano perfetti la vita poteva essere fragile, o mostruosa. Immaginava Marta come una donna marina, un mostro degli abissi, terrificante. Lei tornava a galla e tutto ricominciava come prima. Un corpo tra tanti corpi, senza niente di speciale. Cosa gli era successo? Capitavano volte che sarebbe volentieri scoppiato a piangere. Il sole e il vento non lo permettevano nella maniera più assoluta.
Poi, di solito, si allontanava. Con una scusa qualsiasi, il giornale, le sigarette che stavano finendo, qualunque cosa pur di stare solo. Lei annuiva. Gli sorrideva pallida dalle profondità dello spazio. Quella donna non era Marta, non era nessuno.
Tornava invariabilmente al deserto. Qualcosa lo attraeva di quel luogo. Nel corso dei giorni aveva scoperto sentieri che portavano ad alture dalle quali partivano altri sentieri. Come una ragnatela senza centro, e senza ragno. Camminava senza meta. Si nutriva di quelle immagini, aride come gli occhi che le stavano guardando. Se esisteva un luogo adatto per la sua anima, niente di meglio che un ammasso informe di pietre grigie, cardi, rovi. Popolato da roditori, serpenti, uccelli rapaci, insetti enormi e scuri. Per quanto si sforzasse non riusciva a pensare a niente di più simile.
Quando cominciava a fare troppo caldo tornava in albergo. Chiamava Marta, vuoi che venga da te, mangiamo qualcosa insieme? La risposta era sempre la stessa, no grazie, non ti preoccupare, non ho fame, raggiungimi nel pomeriggio. Sedeva all’ombra e osservava, come una lucertola. Era solo. Completamente solo. Nessun simulacro di lei, nessuna voglia o attesa di lei. Non gli era mai capitato in quattro anni. La sua mente prevedeva soltanto silenzio, non c’era posto per nient’altro.

Cominciò a pensare quelle cose dopo la prima settimana. Da quando erano arrivati in Corsica non avevano più fatto l’amore. Non che litigassero, facessero scenate, niente di simile. Non l’avevano mai fatto quando erano perfetti, non avrebbero cominciato adesso. Grazie a dio almeno quello.
No, tornavano in camera dopo la cena sotto il gazebo, una bottiglia di vino corso piuttosto costoso, qualche chiacchiera stanca, vaga. Lui apriva il computer portatile, guardava le fotografie ancora in corso d’elaborazione, puliva l’obbiettivo dell’unica macchina che aveva portato con sé. Lei leggeva una rivista sul balcone, poi si infilava nel letto e spegneva la luce. Lui la raggiungeva più tardi, facendo attenzione a non toccarla. Poi chiudeva gli occhi e ricominciavano gli incubi.
Adesso era solo. Seduto sotto un ulivo, riparato dal sole di mezzogiorno. Intontito dopo un’altra notte popolata da ombre. Marta era al mare, ad anni luce di distanza.
L’aia era pressoché deserta. Il padre non si vedeva. Il figlio stava in piedi in un angolo di sole, grembiule e sigaretta, incurante dei quaranta gradi. Un oggetto. Dalla cucina proveniva rumore d’acqua corrente e di stoviglie. Lei, lo spirito santo carnale di quella trinità silenziosa. Il figlio scompariva dietro la porta di un magazzino. Lui aspettava immobile. Se abbassava le palpebre per pochi secondi aveva l’impressione di assopirsi. Le ombre si avvicinavano, lo guardavano senza occhi prima di decomporsi. Li riapriva e ricompariva l’aia invasa dal sole. Lei uscì dalla cucina portando un grosso secchio pieno d’acqua. Malvestita, arruffata, sudata. Con la fronte caprina ostinatamente rivolta verso il basso.
Fu la prima volta. Pensò di seguirla in magazzino, di tapparle la bocca, di infilarle una mano tra quelle cosce muscolose. Era curioso di sentire il sapore del suo sudore, nient’altro. Di capire cosa si prova a penetrare una donna come quella, l’antitesi di Marta, di tutte le donne che aveva avuto in passato. Non ne fece niente. Non la seguì. Chiuse gli occhi e ricomparvero le ombre. Li riaprì e ricomparve il sole. Si accese una sigaretta, pensieroso.
Non tardò a diventare un’ossessione. Se la portava al mare quando guardava Marta senza riconoscerla, invaso da quel senso di lacrimoso sgomento. Più ancora durante le sue passeggiate solitarie nel deserto. In un certo senso quella donna muta era il deserto. Carne plasmata nella roccia. Inconsapevole come lo sono i rovi e gli avvoltoi. Viva forse non del tutto, ma concreta. Reale. Tangibile.
Cominciò ad immaginarla in situazioni grottesche. Pensava di portarla al pascolo nuda e violentarla come certi pastori sardi fanno con le pecore. Oppure di mungere quei seni grossi nascosti dal grembiule. Leccare l’odore d’aglio dalle sue cosce. Quel luogo era come la luna, vuoto, cavernoso. Poteva scomparire in un cratere qualsiasi, sarebbe diventato anche lui roccia. Lontano dagli incubi. Nel fondo più estremo di qualcosa che non aveva fondo.
Una mattina finirono di fare colazione. Fumarono in silenzio. Marta disse che saliva in bagno. Lui annuì e chiuse gli occhi. Le ombre erano lì, in attesa.
Quando li riaprì la ragazza era a pochi centimetri da lui, intenta a impilare le tazze sporche sul vassoio. Non pensò a niente, allungò una mano e le afferrò il braccio. Lei si spaventò, il vassoio cadde a terra e le stoviglie esplosero in centinaia di schegge bianche. Guardò perplesso quello che aveva fatto. Lei era già china a raccogliere i cocci, se mai gli aveva badato per un secondo la sua attenzione si era esaurita. Scivolò via dalla sedia, lontano dal tavolo. Fuori il sole era accecante. Non trovò niente di meglio da fare che accendersi un’altra sigaretta.

E alla fine si decise, anche se ormai era troppo tardi. Per lui, per loro, per tutto. Erano passate più di due settimane dal loro arrivo in Corsica. Non avevano mai fatto l’amore. Le ombre erano ovunque, dentro e fuori di lui. Poteva inginocchiarsi e pregare, oppure fare quello che stava per fare.
Marta dormiva. Silenziosa come sempre. Dalle finestre aperte non veniva alcun rumore. A tratti una cicala, nient’altro. Le luci della cucina erano ancora accese, poteva vederlo restando comodamente disteso sul letto. Si alzò senza far rumore, prese il pacchetto di Lucky Strike. Non fece troppa attenzione nel chiudere la porta. Se anche Marta si fosse svegliata non l’avrebbe seguito, ne era certo.
Gli toccò aspettare una mezzora buona, sotto il solito gazebo di lino. Si sentiva un predatore, un animale senza scrupoli. Non importava. Alla fine lei uscì. Spense le luci e chiuse la porta della cucina a chiave. Si diresse a passo spedito verso il centro dell’aia. Lui chiuse gli occhi: ombre. Li riaprì e trovò un’ombra più grande, più densa. Doveva andare.
La raggiunse prima che entrasse nel magazzino a riporre le chiavi. Le disse qualcosa, ma lei tirò dritto. Le afferrò un braccio e le parlò all’orecchio. Lei si divincolò. Disse qualcos’altro, a voce più alta, che la fece fermare. Le si avvicinò. Restarono vicini per un pezzo, parlando a bassa voce. Aprì il portafogli e ne estrasse due banconote. Lei disse ancora qualcosa, indicando un’altra ala di appartamenti.
Poi prese i soldi, e scomparve nel buio.

Marta era al mare. Lui era solo in camera, le imposte chiuse. Il sole non era mai stato così spietato. Il silenzio assoluto, potevi sentire le lucertole strisciare sotto i sassi. Le ombre erano reali, tutto intorno a lui. Guardò l’orologio. Tra mezzora sarebbe dovuto andare.
Si alzò e cominciò a camminare per la stanza. Quella notte i sogni erano stati peggiori. Le figure del suo passato erano cadaveri putrefatti, che lui invano si sforzava di eliminare definitivamente. Marta era comparsa per la prima volta in una posa agghiacciante. Vestita da bambina perversa, sola in una città cupa, fatiscente. E giocava, inconsapevole dei palazzi che crollavano intorno a lei.
Tra poco sarebbe andato. Lei lo aspettava in una stanza qualsiasi, pronta ad uccidere in lui tutto ciò che aspettava soltanto di morire. L’avrebbe trasformato in pietra. L’avrebbe posto di fronte alla necessità di vedere, proprio lì dove non aveva il coraggio di guardare.
E sarebbe finito tutto…

… dieci minuti. Si sciacquò la faccia, si pettinò con le mani bagnate. Dallo specchio stava a fissarlo un mostro. Chiuse gli occhi per non vedere.
Non c’erano ombre adesso nella sua testa. Erano fuori dalla camera che lo aspettavano. Quiete, tutto sommato.
Dentro c’erano solo ricordi. Di una vita e di un amore perfetto. Immagini luccicanti di locali in città. Marta era accanto a lui, splendente di luce propria. Dentro di lui, ovunque fosse, confusa nella folla di una mostra fotografica. Quelle fotografie erano sue. La sua vita perfetta che stava per morire. Non sentiva più niente, nemmeno tristezza. E non poteva piangere perché allora avrebbe pianto per ore. E non poteva affrontare le ombre in lacrime. Era una cosa che non stava bene. Non si conveniva.
Aprì la porta e il sole invase la piccola camera da letto. Le ombre erano lì fuori. Doveva andare, oppure avrebbe fatto tardi. Lei non avrebbe aspettato, era stata molto chiara. Doveva fare quello che stava per fare, oppure inginocchiarsi e pregare…

… supplicare dio di perdonarlo per la sua presunzione. Lui che aveva creduto di essere perfetto. Supplicarlo per la propria imperfezione, perché la carne era debole e lui stava morendo dentro.
Per le luci di Torino che non erano la vita, ma altre ombre che si aggiungevano alle ombre.
Ringraziarlo per quel dolore che sentiva dentro, perché la vita era tanto fragile e le cose muoiono come le persone, e nessuno scompare, mai.
E perché non erano stati perfetti ma soltanto inconsapevoli, felici, leggeri. E perché l’universo è popolato di mostri, e ci vuole troppa forza per guardarli in faccia e sconfiggerli, e perché ci sono organi che necessitano soddisfazione corporale, e esseri umani che si avvicinano e si allontanano, e poi si scordano a vicenda, e perché lui a tutto questo non era pronto, non lo sapeva, non stava scritto da nessuna parte…
… in quel regno di cose senza nome, mute e animali, che non cadono perché non sanno cosa significhi salire, tra il nodo di quelle cosce dove lui avrebbe cercato una risposta primigenia a domande che non sapeva di essersi posto…
… e glorificare il suo nome per avergli concesso una vita perfetta, un amore perfetto, per avergli mostrato come le cose si corrompono, come l’anima si decompone, che esiste la morte che rende imperfetto ogni essere…

… ma non poteva. Perché non era mai riuscito a credere in dio, nemmeno per un secondo. Era troppo facile e troppo inquietante. Lui non era nato dalla costola di nessuno. Dallo sperma di suo padre, era già sufficiente così.
Era in ritardo di cinque minuti. Avrebbe dovuto alzarsi dal letto e uscire nell’aia. Soltanto pochi passi. Sarebbe stato tutto semplice. Quella donna aveva i suoi soldi, lui il suo carnefice. Poi avrebbe raggiunto Marta. Le avrebbe raccontato cos’aveva fatto.
Finalmente avrebbe pianto, fregandosene del sole. Non c’era sole dentro di lui.
Si alzò in piedi. Guardò la porta spalancata. C’era odore di cardi e terra secca.
Uscì nell’aia e chiuse gli occhi.

***

Finì di asciugarsi i capelli e si guardò allo specchio. Si sentiva stanco, provato. Dimagrito forse. Ma quella era la sua faccia, non c’erano dubbi. Pensò di sorridere ma non ci riuscì. Poco male, avrebbe imparato di nuovo come si fa.
Infilò gli stessi vestiti che si era tolto per farsi la doccia. Accese una sigaretta e guardò l’ora. Le sei meno venti. Erano passati quaranta minuti dall’ora dell’appuntamento. A quel punto lei doveva essersene andata. La cosa lo rassicurò. Non avrebbe voluto incontrarla proprio mentre lasciava l’appartamento. Avrebbe dovuto trovare una spiegazione, o cercare di non vergognarsi troppo. Non era certo che ci sarebbe riuscito.
Schiacciò il mozzicone della sigaretta e infilò le scarpe. Prese la macchina fotografica. La porta della camera era ancora chiusa a chiave. Fece per aprirla, ma esitò. Pensò che prima era meglio chiamare Marta. Pensò anche che era giovedì, avevano ancora cinque giorni di tempo prima dell’imbarco. Non erano molti, ma qualcosa si poteva ancora fare.
Compose il numero e attese. Mentre il telefono squillava pensò che quella sera l’avrebbe portata fuori a cena. E che la mattina dopo avrebbero lasciato il deserto e avrebbero passato gli ultimi giorni in albergo, da qualche parte. E che avrebbe voluto una piscina per nuotare, e il mare vicino, e un ristorante dove cenare con lei per ricominciare a costruire tutto quello che era crollato.
Poi lei rispose e lui smise di pensare.

(photo by moominsean, flickr.com)

(ps. guardatelo il book di moominsean – andate su flickr.com e cercate il suo nick. le foto sono in media bellissime…)

6 risposte a “perfetti”

  1. Che bella sorpresa quei tre asterischi, pensavo già di intuire il finale ed invece l’ultimo paragrafo mi ha spiazzato 🙂

    feroci critiche? uhm… mi ero perso nel punto della telefonata, mangiamo insieme (ma dove sono? chi chiama?). [*]Ma sono un po’ tardo quindi se io non capisco non significa necessariamente che tu non sia chiaro.

    Mi piace un sacco(parecchio, tanto tanto) la parte appena prima dell’appuntamento; però ho dovuto leggerla due volte (vedi[*]), e se mettessi la preghiera in corsivo? Perché nel film che ho immaginato leggendo stava bene pronunciata da una voce diversa da quella narrante.

    ora dimmi, per favore, in questa storia c’è speranza secondo te?

  2. sì johnny, c’è molta molta speranza in questo racconto.
    perchè c’è il rifiuto del vuoto che distrugge, della tentazione alla scomparsa, della morte che concede la pace (permettimi di citare pavese: “verrà la morte e avrà i tuoi occhi…”).
    c’è la ricerca del sacro in un’anima ridotta a terra arida, il recupero di una spiritualità che non è religiosa (sai che non sono religioso) ma che tuttavia non vuole cedere al compromesso di una vita privata della sua pienezza… e l’umiltà di riconoscersi materia corruttibile e non dei…
    sì, c’è molta speranza;
    e sì, questo commento al tuo commento è veramente da vecchio trombone 🙂
    qual’è il tuo punto di vista a riguardo?

    (ps. la preghiera in corsivo. è una buona idea, ci penserò.)

  3. oh, cacchio, [panico], cosa ne penso? [il criceto corre sulla ruota..] Senti, ti scrivo considerazioni a caso sperando di rispondere:
    hehe, penso che vecchi tromboni si nasca;
    ci avevo letto speranza ma ho chiesto conferma prima di rallegrarmi, che non si sa mai; credo che si debba sperare, e che si debba mirare ad un obbiettivo, altrimenti non è forse tempo perso? il punto è trovare un bersaglio decente;
    sono contento che mi hai risposto così bene, spiegando come vedi il tuo racconto, soprattutto perché qualcuna di quelle cose ce l’ho letta pure io;
    il racconto mi è piaciuto punto e basta, prima di pensarci su; se così non fosse stato non sarei qui a scrivere, anzi, mi sarebbe scivolato via dimenticato; secondo me questo è importante.

  4. off topic: con la tua cultura avrai certamente qualcosa di meglio; però quando ti iscriverai all’albo dei samurai ti autorizzerò ad epigrafarti una mia frase idiota sulla katana

  5. ecco, vedi che ci capiamo? questa è un idea sensata. fottutamente sensata, oserei dire.

    ma ricorda: niente idiozie estreme. a quel punto vorrò sentirmi davvero un idiota, non sia mai che finiscano con lo scambiarmi per un genio.

    e soprattutto niente è off topic. mai.

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