pubertà

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Passavano sotto la finestra di casa sua tutte le sere, puntuali come orologi. Venivano dalla parte della montagna, perché Roberta abitava lì, ai piedi della montagna, e Roberta era il capo: su questo inutile discutere. Quindi si incontravano tutte e quattro là sotto, al bivio con il cartello NIVOLET – FRANCIA, accendevano una sigaretta e si incamminavano. E passavano sotto la finestra di casa sua, alle nove meno un quarto, pigolando come pulcini.
Quando finalmente scomparivano dietro la curva del lavatoio Sofia rientrava in casa. Alzava il volume dello stereo per non sentire sua nonna che parlava a voce alta nell’altra stanza, mentre rigovernava i piatti della cena. Le opinioni di sua nonna sulla famiglia di Roberta l’avevano sempre lasciata perplessa. “Contadini”, diceva. “Si sono fatti la villa ma sono soltanto dei contadini”. Perché, pensava Sofia, cosa siete voialtri? Non foste stati contadini sareste andati a vivere a Torino, come zia Gilda, che lei no, che non era una contadina…
Ma poi non importava, non era certo quello il punto. A lei mica faceva schifo vivere in montagna, con le vacche l’orto e tutto il resto. Le piaceva anzi. Era sempre stata felice di tutto quel verde umido in cui affondare. Si sentiva protetta.
Era cresciuta con le ginocchia sbucciate, il fiatone, i capelli fradici di sudore. I ripostigli per gli attrezzi in cui si nascondeva, giocando con gli altri bambini, erano un buio incommensurabile: sentiva il ritmo accelerato del suo battito cardiaco e la vita le sbocciava davanti agli occhi, nei termini della possibilità assoluta. Non rimpiangeva un solo istante di tutto questo.
Un tempo, se l’avessero trascinata a forza fino giù in città, avrebbe piantato le unghie nella terra e si sarebbe messa a urlare. Le conosceva lei le ragazze di Torino, le vedeva tutte le estati in villeggiatura con la famiglia: bambole di porcellana piene di idee assurde. E cos’era poi quella storia che a dieci anni giravano per strada con lo smalto rosso sulle unghie? Quella era casa sua. Loro non sapevano niente. Le odiava.
No, il punto era un altro: che Roberta non la voleva più, la salutava a stento se la incontrava per caso dal giornalaio e la domenica a messa faceva finta di non vederla. Ecco qual era il punto. Che una volta erano inseparabili, vivevano praticamente l’una a casa dell’altra. E poi? E poi a Roberta era spuntato il seno, e a lei Sofia invece no. E adesso quando si incontravano per strada Roberta faceva un cenno veloce e tirava dritta.
Per questo lei Sofia aveva cominciato a leggere Emily Dickinson, a riempire quaderni su quaderni di frasi inutili, a passare ore su ore a camminare nei boschi: perché si sentiva sola. E tradita, e abbandonata.
Perché anche Roberta, di colpo, aveva cominciato a girare per strada con lo smalto rosso sulle unghie. E in un attimo non c’era stato più niente da dire.

Un tempo era stato diverso. A Pratolungo, frazione di Locana, tra l’82 e il 90 erano nate tre bambine: Roberta, lei Sofia, e Sandra, che era la più vecchia di tutte ma era ritardata mentale, e ormai si muoveva solo con sua madre al fianco. Sofia e Roberta erano nate lo stesso anno. Erano cresciute insieme. Giorno dopo giorno, nei prati d’estate e a casa della nonna di Sofia d’inverno, davanti alla tv con la stufa accesa. Alla fine era arrivata la pubertà, come una condanna.
Di questa recente solitudine della nipotina, la nonna di Sofia pensava molto ma diceva poco. Di solito se la prendeva con Roberta, e con tutta la sua famiglia giù giù fino ai nonni dei nonni. E non si limitava alla villa, o alle origini contadine. “Perché”, diceva, “cosa credi che vanno a farci a Locana tutte le sere? Vanno a cercare i ragazzi, ecco cosa vanno a farci. Alla sua età sua madre era lo stesso. E sua nonna anche”.
Lo diceva con un certo astio, ma su questo non aveva torto. Perché andare a Locana altrimenti? Per niente, perché a Locana non c’era niente: una pompa di benzina, due negozi, la chiesa e il bar. E al bar c’erano i ragazzi più grandi, quelli con la moto o la macchina addirittura, un po’ d’erba da fumare al parco giochi e dio sa cos’altro.
A Pratolungo invece no. C’erano i ragazzini di dieci o dodici anni che giravano con la bicicletta e in testa avevano soltanto il pallone. E lei Sofia che leggeva Emily Dickinson e camminava da sola nei boschi. Il deserto, insomma.
Eppure finché era stato inverno, con la pioggia e la neve e tutto il resto, quella solitudine era stata meno dolorosa. È vero, a scuola Roberta non le rivolgeva la parola, ma pazienza. C’erano le lezioni da seguire, gli appunti da prendere… e comunque alle tre del pomeriggio era buio, e faceva un freddo cane: passare la giornata sola in casa era quasi confortevole.
E poi le vedeva, Roberta e le altre, fuori della scuola che parlavano con i ragazzi delle superiori, e vederle le dava un senso di sicurezza. Ridevano un po’ troppo, è vero, e continuavano a fumare. Ma si trattava di una parentesi, di una fuga temporanea: dieci minuti dopo sarebbe passato l’autobus, l’unico della giornata per Pratolungo, e tutto sarebbe tornato alla normalità. Almeno fino al giorno successivo alla stessa ora.
Ma adesso che era arrivata l’estate le cose erano diverse. Roberta scendeva a Locana nel pomeriggio e ci restava fino a sera, saliva per la cena e alle nove meno un quarto tornava giù. Cosa faceva in tutte quelle ore? C’era tempo sufficiente per fare un bambino, in tutte quelle ore, per farne cento di bambini. Questa indeterminatezza la lasciava sgomenta, non le riusciva di pensare ad altro.
E poi, soprattutto, d’estate non c’era niente da fare. Senza Roberta nei dintorni, Pratolungo si trasformava in una camera a gas: i ragazzini in bicicletta con la radio nel portapacchi, i pastori, i vecchi che dormivano agli angoli delle strade. C’erano giorni in cui l’unica persona con cui parlava era Sandra, che tutte le mattine veniva con sua madre a prendere l’acqua alla fontana. Allora c’erano volte che Sofia le incontrava e si fermava un po’ a parlare. Ma la madre di Sandra era scorbutica (incattivita da quella disgrazia di figlia che le era capitata) e Sandra non diceva quasi niente.
Mugugnava, sfogliando le pagine del Topolino senza nemmeno capire le figure.
E ormai aveva più di vent’anni.
Pochi minuti dopo Sofia salutava, e si incamminava sola verso casa…

… ma poi restava a pensarci, a volte addirittura tutto il pomeriggio. Pensava che le cose cambiano, persino a Pratolungo frazione di Locana.
Da qualche tempo incontrare Sandra le dava un dolore acuto, un turbamento nuovo che riusciva solo a stento a definire. Guardava quegli occhi vuoti e avrebbe voluto urlarci dentro tutta la sua rabbia. Ma non poteva, e comunque non sarebbe servito: non c’era mai stata vita in quello sguardo, nemmeno prima che succedesse quello che era successo. Forse Sandra non ricordava neppure, e certamente era meglio così. Forse le cose erano andate esattamente come dovevano andare.
Lei Sofia invece ricordava, eccome se ricordava. Era stato d’inverno, due o tre anni prima. Comunque era una ragazzina di dieci anni (faceva ancora le elementari) ed era spensierata: voleva bene a sua nonna e voleva bene a Roberta. Quando camminava per strada si sentiva leggera e sentiva di possedere una consistenza: i suoi pensieri e il suo corpo erano ancora la stessa cosa, a quei tempi.
Era stato un inverno lungo e pieno di neve. Roberta era sempre a casa sua, guardavano la televisione o ascoltavano dischi chiuse in camera. A volte uscivano nei prati completamente bianchi e correvano e poi si lasciavano cadere in quel nulla soffice e accecante… o anche restavano alla finestra a spiare i vicini, goffi negli abiti invernali, che spaccavano la legna o rassettavano gli orti ghiacciati. Era semplice, ed era bello. Non c’erano maschi e femmine (non ancora) ma solo eschimesi che spaccavano la legna per sopravvivere a un’altra notte in montagna.
E loro due, in casa al caldo, non chiedevano altro che poter spiare. E ridere di quei travestimenti, di quella goffaggine obbligata…
Poi era successa quella cosa. Era un pomeriggio come gli altri, quieto e bianco e soleggiato esattamente come gli altri. Già quella sera in paese non si parlava d’altro.
Erano arrivati a Pratolungo dopopranzo, in due, con una macchina scura. I vecchi li avevano guardati passare con circospezione, ma non si erano mossi dalle loro case. Li conoscevano: era gente di Locana, diciottenni contadini figli di contadini e nipoti di contadini. Poveracci. Sempre al bar e sempre ubriachi. Non erano nemmeno scesi in strada, i vecchi, perché loro con quella gente non volevano averci niente a che fare. Erano teppisti, lo sapevano tutti: andavano nel bosco a drogarsi. E si drogassero pure, e magari ci restassero anche nel bosco, nessuno si sarebbe dato troppa pena. Nemmeno i loro padri.
E infatti c’erano andati, nel bosco. A bere vino e a fumare e a schiamazzare come oche. Sandra era passata di lì per caso, sola, perché a quei tempi usciva ancora sola.
L’avevano fermata con una scusa. Lei non capiva. Avevano riso e l’avevano insultata, per essere certi che non capisse. Poi gli era venuta l’idea. L’avevano fatta sedere vicino a loro sul tronco d’albero e s’erano messi a dire porcate, prima ridendo e poi sul serio, e avevano cominciato a toccarla e lei s’era fatta toccare ovunque e continuava a non capire.
Poi l’avevano fatta salire in macchina, e mentre uno stava dentro con lei l’altro restava fuori a bere e a cantare.
Alla fine l’avevano lasciata andare ed erano tornati a Locana, soddisfatti…

Ma adesso era estate. Erano passati tre anni. Era tutto finito.
Finì tutto il giorno stesso, nelle chiacchiere del paese. Tutti conoscevano i colpevoli, ma denunciarli alla polizia significava mettere i fatti nero su bianco. Significava un articolo sul giornale locale, i commenti dei vicini, la certezza che la notizia facesse il giro delle valli. Non valeva la pena di fare uno scandalo. E in quanto a loro, i due ragazzi, si sarebbero dati da sé quel che meritavano. Zappando la terra, e continuando a bere… ci avrebbe pensato il loro stesso destino a punirli.
E basta: Sandra non era più uscita sola, ma sempre con la madre alle calcagna, come un mastino. Nient’altro.
Eppure adesso, che erano passati tre anni ed era di nuovo estate, a Sofia sembrava di capire per la prima volta cosa fosse successo. Non che prima non lo sapesse… Ma ora aveva l’impressione di sentirle sul proprio corpo, quelle mani invadenti, di uomini volgari, sporche… Mani cariche di violenza…
Non importava. Poteva chiudere gli occhi, riaprirli, guardare i prati verdi inondati di luce. Tutto quel dolore poteva scomparire.
Era estate un’altra volta.

I giorni passavano così. Nel vuoto. Si alzava presto la mattina e aiutava la nonna a raccogliere gli zucchini, o restava sola seduta su un sasso al ciglio della strada che porta al NIVOLET – FRANCIA. O guardava le lucertole che si infilavano sotto i sassi, come faceva da bambina. Solo che non era più una bambina: ecco qual era il punto.
I pomeriggi li passava a camminare sola per i prati, , raccogliendo fiori, sassi, lattine, tutto quello che le capitava di incontrare sulla strada. Vedere le altre del paese, ormai donne fatte, le provocava uno strano turbamento. Avrebbe voluto toccare quei seni pesanti per capire cosa si prova a portarli sul petto.
Degli uomini invece percepiva l’odore. Di tabacco, sudore e qualcos’altro che non avrebbe saputo definire. Era un aroma che associava alla montagna, alle domeniche lontane con Roberta, d’inverno, passate sotto le coperte. Si spogliavano nude e restavano a guardarsi a vicenda, anche per ore. A volte si toccavano. Ridevano molto, senza sapere perché.
Non voleva pensarci, avrebbe voluto scordare tutto, tornare a correre libera… ma non poteva. Si sentiva confusa, oltre che sola. E se Emily Dickinson poteva alleviare la solitudine, contro la confusione non proponeva risposte plausibili. Da quel punto di vista non diceva proprio niente di interessante.
Innanzitutto c’era la faccenda del sangue, che sua nonna, che pure s’era impegnata, non era riuscita a spiegarle come si deve. E quel prurito incessante alle braccia e alle gambe, e quelle idee assurde che le passavano per la testa ogni tanto e attimi di gioia incontrollabile e crisi di pianto immotivate. Si sentiva come un terremoto dentro e se ne vergognava, e si vergognava di arrossirne, anche. E poi quel suo corpo che s’era allungato, ma senza seni e senza fianchi, come quello di un uomo. Non capiva.
E tornavano tutti quei pensieri… La sensazione di centinaia di mani che la toccavano, che le frugavano dentro…
Ma poi anche le passeggiate solitarie finivano, e con loro tutte quelle sensazioni assurde. A casa c’era la nonna che guardava il telegiornale, o che tagliava le verdure per la cena. La sua cameretta con i dischi dei Nirvana e i libri di poesia. Il balcone da cui spiava Roberta che scendeva a Locana, alle nove meno un quarto, per andare dai ragazzi.
E basta.

Una notte, poi, successe qualcosa. Era molto tardi, l’una o le due, e lei Sofia non riusciva a prendere sonno. Era scossa da pensieri violenti, brividi, paure: le solite sensazioni che non riusciva a decifrare. Decise di scendere sotto casa ad ascoltare i grilli per calmarsi. Si vestì in silenzio per non svegliare la nonna, e in silenzio scese le scale.
Era seduta da mezzora sull’ultimo gradino della scala quando arrivò la macchina. Passò piano davanti a lei e si fermò poco più avanti, in un prato che di giorno serviva da pascolo per le vacche. Ne scesero due persone: un ragazzo alto (che non conosceva) e Chiara, l’amica bionda di Roberta. Accesero una sigaretta. Lei Sofia si fece più piccola sull’ultimo gradino della scala, si infilò più in profondità nel buio per non essere vista. I due fumarono la sigaretta parlando (ma di cosa? Da quella distanza non riusciva a distinguere le parole) e poi cominciarono a baciarsi.
Il ragazzo la baciava sulla bocca e poi sul collo, e intanto le toccava il seno e le natiche con forza, come fanno i pastori per vedere se le loro pecore sono in salute oppure no. E Chiara lasciava fare, questo era ciò che lei Sofia trovava più assurdo, che la ipnotizzava. Poi il ragazzo disse qualcosa, entrambi salirono in macchina e spensero i fari. Tutto crollò nel buio…

… e allora in quel silenzio improvviso senza luce qualcosa le salì dentro… come nausea…
… e in un attimo le tornarono davanti agli occhi tutte le estati della sua infanzia, e i ricordi… gli inverni quieti e bianchi e silenziosi… il silenzio di casa sua, con sua nonna che metteva legna nuova nella stufa, e il calore e il profumo delle verdure messe a scottare… e tutte le estati con Roberta passate a correre nei prati luminosi, la sensazione del sudore contro la schiena, gli angoli bui dove si nascondevano per parlare… di loro, della loro amicizia, della vita che sarebbe venuta, di tutte le cose che avrebbero fatto insieme…
… e poi di nuovo inverno, quell’inverno di tre anni prima quando due balordi di Locana avevano violentato Sandra che non capiva… non sapeva cosa stesse succedendo, e nemmeno lei Sofia lo sapeva e Roberta neppure, non capivano… e anche quello era stato tanto semplice, crudele ma semplice, e non c’erano quelle mani che frugavano dentro il tuo corpo, quelle sensazioni…
… quelle stesse mani che stavano frugando il corpo di Chiara in quella notte d’estate senza luce, in quel buio misterioso e terrificante…
… mani sporche e prepotenti che di tappavano la bocca, non ti lasciavano urlare il tuo dolore e la tua rabbia… la voglia di cambiare, il bisogno… mani che stavano forse stavano frugando il corpo di Roberta in un’altra parte della vallata, in un’altra macchina parcheggiata in un prato al buio e che non avevano mai frugato lei Sofia, nemmeno una volta per gioco… e non sapeva non capiva nemmeno lei come Sandra, non riusciva a vedere le cose chiaramente…
… se quelle stesse mani violente la disgustavano oppure se ne era attratta… se il suo rancore era invidia… o bisogno…

… allora si alzò di scatto, e quando fu in piedi restò immobile perché si rese conto che non sapeva cosa avrebbe fatto. Avrebbe voluto urlare, ma perché poi? Oppure arrivare alla macchina in silenzio e spegnere i movimenti frenetici di quei due corpi, ammazzarli come conigli… o chiudere gli occhi e immaginare di essere lei, il suo corpo quel movimento frenetico… e restare a guardarli morire o anche urlare di smetterla, di smetterla per favore di smettere di fare quello che stavano facendo per carità di dio…
Ma nemmeno di questo sarebbe stata capace. Allora si voltò e cominciò a correre per le scale, corse fino in camera sua e chiuse la porta con violenza, e poi si infilò nel letto tutta vestita e cominciò a piangere affondando la faccia nel cuscino per non svegliare la nonna.
Pianse per un’ora buona e mentre piangeva si chiedeva perché di tutto quel dolore, chiedeva perdono a sua nonna per essere diventata quel mostro informe, chiedeva perdono a Roberta per averla tradita… per aver tradito sé stessa… perdono per quella voglia e quella rabbia…

… e poi continuò a piangere senza chiedere più perdono a nessuno, e non pensò più a niente.
E smise di piangere e restò in silenzio distesa sul letto, senza pensare e senza sentire, immobile come un insetto.
Poi, quando anche le ultime lacrime si erano asciugate, pensò una cosa sola: che l’estate era finita. Che quella era stata l’ultima estate della sua vita e non ce ne sarebbero più state altre.
Poi si addormentò.

(photo by jsmithly on Flickr.com)

7 risposte a “pubertà”

  1. Senti, caro, va bene che noi lettori del tuo blog facciamo tutti gli intellettuali che guardano solo lo stile e il plot e le figure retoriche e l’originalità del racconto eccetera, scriviamo “iconico”, “generazionale”, “semplice e folgorante” e queste cose qui.

    PERO’ CAZZO, VOGLIAMO SAPERE COME VA A FINIRE!!!!

    Non ci puoi lasciare così, appesi a un filo, pallidi e tremanti, sfiniti dalla fatica di digitare l’indirizzo del tuo blog, per guardare per la centesima volta in un giorno se hai pubblicato anche la seconda parte!

    [anche se, in fondo, questa idea di mettere solo metà racconto mi solletica, non mi piace subirlo ma sto pensando che forse farò lo stesso anch’io]

    Rispetti e affettuosi saluti,

    Coco

  2. ok finiva così: veniva l’inverno e la neve e tutto peggiorava dentro e fuori sofia. peggiorava e peggiorava finchè esplodeva.
    l’esplosione era pressappoco questa: gli amici di roberta facevano una festa e violentavano sandra, chè tanto è pazza e non capiva cosa stesse succedendo.
    in un finale nevoso e silenzioso (ma non catartico) sofia e roberta si ritrovavano accomunate da quel disastro che è l’adolescenza.
    fine.
    ma non credo proprio che questo finale vedrà mai la luce.
    perchè:
    1. non riesco a scriverlo;
    2. la provincia mi affascina ma mi annoia (tu coco sai cosa dico) e dopo un po’ divento iroso e lamentoso e vorrei spaccare il computer contro l’armadio, altro che scrivere;
    3. trovo che sia una storia già raccontata miliardi di volte e non vedo perchè dovrei dare il mio contributo;
    4. il minimalismo va bene ma siamo nel 2007.
    ecco qui.
    se proprio ci riesco cerco di cambiarlo tutto e trasformarlo in qualcosa d’altro un po’ più surreale e sperimentale, così da concludere tutto in poche cartelle.
    se ci riesco.
    forse però non ci riesco perchè continuo a fare sogni terribili che parlano di guerra e apocalisse e quando mi sveglio resto con il cervello in pappetta fino all’ora di tornare a dormire e sognare di nuovo l’apocalisse.
    e perchè provo astio per gli scrittori di professione e gli scrittori che si sentono scrittori e ogni tanto mi piacerebbe fare il panettiere e piantarla lì.
    ecco.

    baci, coco

  3. Ma no, no.

    La provincia sarà anche noiosa (hai ragione, so bene di cosa parli), ma questa qui non è provincia, è montagna, che è ben diverso. Quasi tutti i racconti che leggo sono ambientati o, appunto, in provincia, o in grandi città superfighe, con il binomio provincia-follia-e-gente-che-sbotta-e-uccide-tutti oppure città-alienazione-individualismo-e-cazzi-e-mazzi.

    La montagna è super, come ambientazione, non ne parla mai nessuno.

    E poi per forza che sono cose già sentite: tutto è già sentito nel 2007. Anche la storia di un giornalista che da pavido e disinteressato si fa coraggioso attivista politico è già sentita, ma se la scrive Tabucchi è un’altra cosa. Secondo il mio cestinabile parere, se uno scrive nel 2007 gli resta solo il “come”, e non il “cosa”.

    Poi: io forse, effettivamente, toglierei la storia dello stupro, quello sì che è un po’ cliché “cattiva ragazza che cresce e frequenta le cattive compagnie abbandonando l’unica vera amica e rendendosi conto alla fine che ha sbagliato strada”. Fai finire male Sofia, e non Roberta! Male per noi, che lei non lo sappia: tipo che diventa una bacchettona sola e un po’ disperata come sua nonna, ma siccome non ha mai visto altro nella vita, crede che quella sia la normalità, o cose così. Un finale più consono a quello che vediamo succedere da sempre nei paesini di montagna dalle nostre parti, più o meno, o no?

    Poi boh.

    A me piacciono i finali dove non succede quasi niente (tranne rare eccezioni), ma questo è solo un altro cestinabile parere.

    Last but not least: non odiare gli scrittori: se vuoi, puoi non sentirtici; dipende sempre da quanto sai ridere -sorridere; sghignazzare- di te stesso e di cosa ti senti tu e di cosa gli altri pensano che tu sia.

    Buena vida, caro.

    Coco

  4. Ah, un’altra cosa: questo è un ritratto DAVVERO impeccabile dei paesini di montagna. Di uno che li ha visti, che li conosce. Le nove meno un quarto puntuali, la stufa, eccetera. [sai che mi viene l’ansia quando vado in montagna: ecco, leggendo mi è venuta l’ansia, che è un ottimo risultato secondo me].

    Se uno è di Tihuana e non sa cosa vuol dire, poniamo, trovarsi a Ponte nel bel mezzo dell’inverno, se legge il tuo racconto, direi, ne avrà un’idea molto molto vicina alla realtà.

    Questo è fantastico!

    No, non puoi lasciarlo a metà.

    Se hai problemi con l’apocalisse, mollala un attimo col fumo. Forse è quello.

    Ri-rispetti,

    Coco

  5. 1. be’, grazie coco, devo dire che riesci ad infondermi speranza.

    2. devo anche dire che forse ho trovato la chiave di volta e che quindi forse entro sera (massimo domani) uscirà il pezzettino.

    3. potremmo scrivere una barzelletta a quattro mani su uno di tihuana che si trova in val formazza nel bel mezzo dell’inverno se ti va.

    4. coco: non fumo più dalla quinta liceo!

    5. sono combattuto tra: io non ho problemi con l’apocalisse; e: il giorno del giudizio è vicino.
    scegli tu in base al tuo umore.

    baci

  6. be’ alla fine è comparso.
    mi soddisfa metà (per essere clemente con me stesso) ma almeno c’è.
    grazie a coco per avermi infuso speranza su questo racconto in particolare e a barbara per la chiacchierata via mail che mi ha infuso speranza sulla scrittura in generale.
    grazie anche hubert selby jr. per aver scritto dei racconti e per non essersi incazzato di questo palese plagio (vedi: “pubertà” in “il canto della neve silenziosa”).

    A TUTTI I (POCHI) LETTORI DI QUESTO BLOG (compresi quelli citati sopra, tranne selby – voci indiscrete dicono che non abbia mai visitato questo blog… ma peggio per lui):
    se non avete nulla di meglio da fare scrivetemi tutte le critiche più feroci.
    grazie di tutto.

  7. ti avevo detto di essere maleducato, quindi basta coi ringraziamenti… anzi, giusto per contraddirmi, grazie a te.

    critiche? no.
    impressioni direi.
    intanto mi fa piacere che la “fine” sia rimasta quella. avevo avuto sempre la sensazione che questo racconto, anche quando era un “untitled 1/2”, fosse compiuto in sé. insomma, il finale già mi sembrava buono, non dava il senso di qualcosa lasciato in sospeso. in realtà hai aggiunto solo un elemento, la violenza, l’ignoranza, il silenzio, gli occhi vuoti.
    critiche non ce ne sono, solo fossi in te riguarderei tutto, valuterei cosa serve alla storia e cosa no. quali particolari sono necessari, evocativi in qualche modo e quali invece sono una forzatura, un elemento in più che non serve a nulla se non ad appesantire. si sentono subito, sono quelle frasi che scendono di tono (es.: pianse per un’ora buona).
    bella, molto bella, l’esplorazione della mente (e del corpo) di sofia “nella notte dell’evento” (una notte poi successe qualcosa…).
    e con un commento che dice tutto e non dice niente, me ne torno al lavoro.

    a presto

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