Ancora una volta sulla complessa questione del rapporto tra depressione e capitalismo

L’ultima puntata delle cronache della psicodeflazione di Bifo mi ha fatto fa riflettere ancora una volta sulla questione che le dà il titolo, in questo caso riprendendo uno slogan delle proteste in Cile, a dimostrazione del fatto che un certo pensiero fisheriano ha ormai ampiamente oltrepassato i confini europei: “Non era depressione, era capitalismo”.

La diffusione delle idee di Fisher (soprattutto quello di Realismo capitalista) negli ultimi anni ha trasformato l’idea per cui la depressione sarebbe il disagio psichico del capitalismo avanzato in uno di quegli assunti in cui credere in maniera acritica, e che vengono ripetuti tanto spesso da cominciare a suonare sospetti. Il tema ha i suoi padri nobili (Lacan), i suoi divulgatori (Zizek, Recalcati), i suoi martiri (Fisher appunto) e dal 2019 anche film di culto come Joker, citato giustamente nel pezzo di Bifo, un’opera che mostra i suoi intenti didascalici già dalla frase pronunciata in apertura da Joaquin Phoenix: “Is it just me, or is it getting crazier out there?”.

Liberiamo subito il campo dagli equivoci: l’esistenza di una correlazione, forse persino di un rapporto di causa-effetto, mi pare oltre ogni ragionevole dubbio, e le analisi a riguardo (di cui quella fisheriana non è a mio parere la più convincente, anche se è quella con più appeal perché, naturalmente, Fisher ha dimostrato la validità della propria tesi con il suicidio, in una tremenda ma anche funzionale profezia che si autoavvera) sono piuttosto accurate da almeno una ventina d’anni: per una panoramica divulgativa si veda ad esempio un libro come Le nuove melanconie di Recalcati, vero sequel del fondamentale L’uomo senza inconscio, o uno qualsiasi dei libri di Byung-Chul Han (magari La società della stanchezza).

Non intendo quindi sostenere che il legame non esista o che sia rimarcato con troppa frequenza o in maniera inappropriata: riconoscere una dimensione sociale al disagio psichico individuale è importante, come sapeva l’antipsichiatria già negli anni Sessanta, e lo è particolarmente in un momento in cui la narrazione dominante da diversi decenni sta cominciando a mostrare le sue crepe.

Il punto piuttosto è chiedersi se questa lettura non stia diventando una sorta di chiave che apre tutte le porte interpretative quando si parla di disagio mentale, e soprattutto se dietro la facilità con cui le cause della depressione vengono invariabilmente attribuite al capitalismo non si nasconda una zona cieca di qualche tipo. Daltra parte, per rimanere nell’ambito della salute mentale, una cosa che molti anni di psicoterapia mi hanno insegnato è che quando ripeti qualcosa con troppa convinzione probabilmente non ci credi davvero nemmeno tu, e le spiegazioni che sembrano troppo semplici per essere vere sono, appunto, false, o meglio sono dei modi di sviare l’attenzione da questioni più importanti.

Uno dei problemi con l’assunto “non era depressione, era capitalismo” è che il neoliberismo, come sappiamo bene da ormai diversi decenni, è una forza impersonale e diffusa, che trae il suo potere dalla colonizzazione delle coscienze e dall’hackeraggio dei desideri. Il neoliberismo siamo letteralmente tutti noi, persino i più ribelli tra di noi, come spiegava già Tyler Durden in Fight Club, il film vero predecessore di Joker.

Per questa ragione sostenere che la causa dell’incremento vertiginoso e preoccupante della depressione soprattutto tra i giovani nell’ultimo decennio sia “il capitalismo” è pericoloso anche quando è vero, perché rischia facilmanete di trasrformarsi in una posizione deresponsabilizzante: le cause del disagio vengono attribuite a un sistema impersonale e astratto che, se non immutabile, sicuramente farà parte della nostra vita ancora a lungo, e la “guarigione” (in una maniera molto tipica della sinistra e intimamente depressiva, come ha dimostrato Enzo Traverso in quel capolavoro non sufficientemente riconosciuto come tale che è Malinconia di sinistra) viene rimandata a un a un eschaton che, come tale, non arriva mai. Nell’attesa della fine, intanto, “non c’è alternativa” alla depressione se non, come appunto capita in Joker, attraverso una riappropriazione nicciano/accelerazionista della libido attraverso il caos sociale, che però ha l’inconveniente di trasformarsi rapidamente in violenza reazionaria (e questo è il punto in cui il film di Todd Philipps recupera più esplicitamente il discorso iniziato da Fight Club, quello dove si nasconde l’ambiguità che fa di entrambi i film grandi opere d’arte).

Un’altra cosa che ho imparato sulla mia pelle è che c’è sempre qualcosa di sospetto nell’individuazione di colpevoli, e che uno dei primi scogli da superare lungo la via della guarigione è abbandonare l’attribuzione generica di responsabilità per entrare nei dettagli organici (e dunque più dolorosi) della propria storia personale: smettere di accusare genericamente la società o i genitori del proprio malessere per capire in quali modi intimi la società o i genitori provocano proprio quegli effetti proprio a noi. Senza questo step non c’è guarigione, non solo perché nella vita reale (cioè al di fuori delle nostre proiezioni narcisistiche, e dunque anche al di fuori delle bolle di Facebook e dei discorsi intellettuali astratti) non esistono soluzioni generiche a problemi generici, ma anche perché spesso attribuire responsabilità astratte è una maniera efficiente di sviare l’attenzione dalle cause intime che generano disagio, allo scopo naturalmente di non affrontare mai i nuclei veramente traumatici.

Dunque è questo che stiamo facendo come società ogni volta che diciamo “non era depressione, era capitalismo”? Stiamo sviando l’attenzione dai problemi veri per proiettare le responsabilità su un’entità astratta che ci permette di non affrontare mai le reali ragioni del nostro disagio? Non esattamente.

Una delle ragioni per cui il discorso sul rapporto tra capitalismo e depressione è mal posto è che si basa su una dicotomia inesistente tra disagio mentale come sintomo individuale di cause sistemiche (posizione fisheriana) e disagio mentale come problema del tutto personale, dunque patologico e da trattare come tale (posizione della psichiatria mainstream e di molti approcci psicologici in voga oggi). Trovo molto frustrante, ogni volta che sollevo qualche dubbio sull’assunto capitalismo = depressione, come sto facendo in questo post, ottenere il supporto di chi è convinto che il disagio mentale sia in larga parte un malfunzionamento biologico del cervello da tratare con gli psicofarmaci, una posizione che, con le dovute eccezioni, aborrisco, reputandola riduzionista, pericolosa e mortificante per l’essere umano.

Piuttosto che una dicotomia tra pubblico e privato, tra collettivo e individuale, penso che dovremmo guardare alla questione come a una macchina kafkiana dove ogni cosa è anche il suo opposto, o ciò che crediamo essere il suo opposto, come un prisma: in fondo è sempre soltanto una questione di sguardi e mai della cosa in sé. Anzi, il fallimento di comprendere come questi due aspetti coesistano e si influenzino a vicenda mi sembra proprio il tassello che manca per dare allo slogan “non era depressione, era capitalismo” uno spessore che al momento non ha, e per farne un programma veramente trasformativo e non una maniera di eludere all’infinito problemi che diventano ogni giorno più drammatici.

Se l’esperienza di Fisher ha un valore, piuttosto, sta proprio nell’aver dimostrato che storia individuale e storia collettiva, disagio personale e disagio generazionale, sono sempre due facce di una stessa medaglia. Nella pratica (e in questo temo invece che l’analisi di Fisher sia manchevole) il punto sta nel comprendere quanto ci sia in noi, nei nostri desideri e nei nostri bisogni, di intimamente capitalistico, e di iniziare una liberazione psichica che in quanto tale diventa politica, e non viceversa: in fondo, come Bifo ha notato giustamente nelle sue cronache e altrove, il capitalistmo è sempre e prima di tutto psico-capitalismo. Muore non quando viene attaccato dall’esterno, ma quando viene meno la libido che lo alimenta. Come hanno dimostrato sia gli attentati dell’11 settembre che la crisi economica del 2008 e la pandemia di Covid-19, è quando si esaurisce la fiducia nel sistema che questo comincia a vacillare. Questo significa che, come nel samsara buddhista, si tratta di smascherare l’illusione qui e ora piuttosto che ribaltarla domani.

Anche perché il capitalismo, naturalmente, ingloba anche le critiche relative ai suoi effetti sulla psiche. A ben guardare, la grande enfasi sui problemi di salute mentale che ha caratterizzato gli ultimi anni con iniziative come il World Mental Health Day e simili va a toccare pochissimo le reali cause reali del disagio psichico, risolvendosi quando va bene in blandi consigli per gestire meglio lo stress (“cinque minuti di mindfulness al giorno possono cambiare la vita”) e quando va male in pratiche auto-delatorie volte a ricostruire l’efficienza perduta (“non aver paura della tua sofferenza, rivolgiti a un esperto che potrà correggere l’errore di calcolo del tuo cervello-computer e trasformarti di nuovo nell’ingranaggio oliato che ci si aspetta tu sia”).

La posizione per cui “non era depressione, era capitalismo” è migliore, perché quantomeno riconosce la presenza di cause sistemiche a problemi che per la medicina sono riducibili a semplici squilibri chimici, ma non fa molto di meglio nel fornire un senso emotivo al disagio quando dice “in realtà non sei tu che stai male, è la società a essere sbagliata”. La società in effetti è sbagliata, basta guardare come stiamo riducendo il pianeta per accorgersene, ma ciò che rende il problema spinoso è che in quanto membri di questa società i primi a essere sbagliati siamo noi: sono i nostri desideri e le nostre aspettative a essere irrealistici, autolesionistici o mortificanti delle nostre persone, e riconoscere questo errore di base nella nostra “programmazione” non significa necessariamente assumersi sulle spalle dei problemi sistemici. D’altra parte se una cosa ci hanno insegnato quarant’anni di neoliberismo è che la maniera migliore di rendere efficiente la macchina è quella di trasformarci tutti in sfruttatori di noi stessi: perché dovremmo quindi pensare che il campodi battaglia si trovi solo nelle strade, e non anche nelle menti delle persone?

Un caso da manuale di questa dinamica si è visto con il ritiro di Naomi Osaka dagli ultimi Roland Garros. Lo scorso anno sono rimasto impressionato dalla vittoria della tennista americana agli US Open contro l’esperta Victoria Azarenka, che Naomi aveva annientato dopo un primo set nel quale non era praticamente entrata in campo, dimostrando però subito dopo una padronanza di sé che avevo trovato inquietante e affascinante allo stesso tempo. Dopo il momento di blackout iniziale, Osaka si era ricomposta trasformandosi in una macchina completamente priva di emozioni, un atteggiamento rimarcato dalla scelta, che mi aveva fatto sorridere per quanto è tipico della sua generazione, di sedersi cautamente a terra per festeggiare la vittoria invece che lasciarsi cadere in preda a una (vera o falsa, conta fino a un certo punto) emozione come siamo abituati a vedere di solito in questi casi, commentando nel postpartita di voler festeggiare come si conveniva ma con riguardo per la salute, perché gettandosi a terra è facile farsi male. L’assenza di slancio emotivo e il rifiuto della spontaneità mi avevano fatto pensare a un automa alla Blade Runner, consapevole di esserlo, mentre la polarità del match giocato contro Azarenka mi aveva istintivamente riportato alla mente il discorso che Recalcati fa ne L’uomo senza inconscio sulla patologia contemporanea come “frattura verticale” tra il tutto e il niente, la performance e l’abisso, e dunque sulla depressione come contraltare necessario della mania capitalista.

Non mi ha stupito quindi seguire quest’anno il sofferto percorso che ha portato Osaka a ritirarsi dai Roland Garros da favorita dopo essersi rifiutata di partecipare alle conferenze stampa postpartita perché le domande dei giornalisti “ti entrano nella testa” e “ti tolgono sicurezze”. Dopo il ritiro Osaka ha spiegato di soffrire di depressione e ha chiesto maggiore rispetto per la salute mentale degli atleti, un gesto coraggioso che rivela un’autoconsapevolezza non comune in un mondo in cui si viene allenati alla performance fin dalla più tenera età, ma che allo stesso tempo mette in scena ancora una volta il dramma di una ribellione contro sé stessi: il rifiuto di Naomi nei confronti del sistema che mina la salute mentale sua e di molti altri atleti è prima di tutto una maniera di autosabotarsi, una richiesta a sé stessa di uscire dal meccanismo perverso di uno sporto ormai disumanizzato che richiede agli atleti di sopportare una pressione fisica e psichica insostenibile.

Con il suo gesto Osaka ha portato a galla ancora una volta le contraddizioni di un sistema sportivo-spettacolare completamente sfuggito al controllo, che poi è l’elefante nella stanza dello sport contemporaneo almeno dai tempi in cui Andrè Agassi ha raccontato la sua drammatica esperienza in Open (quanto potremo ancora andare avanti con sportivi che giocano match decisivi ogni due giorni, che guadagnano come un piccolo stato e non hanno nemmeno la libertà, ad esempio, di dichiararsi omosessuali?). A differenza che nel caso di Agassi, però, in Osaka manca la ribellione grunge: non siamo più di fronte alla macchina arrabbiata del punk, ma alla macchina triste della nostra epoca depressa. Naomi ha provato a reggere la performance finché le sue sicurezze sono crollate (i giornalisti che “ti entrano nella testa”), poi c’è stato l’abisso.

Un altro aspetto che mi pare meriti una riflessione è che quando si attribuiscono responsabilità generiche di solito si sta cercando di proteggere qualcosa o qualcuno perché, generalmente, mettere in discussione quel qualcosa o quel qualcuno significa far vacillare aspetti della nostra identità che ci proteggono. Il che mi fa pensare alla distanza abissale che separa la teoria del “non era depressione, era capitalismo” dall’antipsichiatria degli anni Sessanta e Settanta, forse il più influente dei movimenti che ha letto il disagio mentale come espressione di un problema sistemico e che nonostante questo non viene mai citato da Fisher o dai suoi seguaci.

Già all’inizio degli anni Sessanta, psichiatri come R.D. Laing leggevano il disagio psichico come l’unica risposta plausibile trovata dalla mente per sopravvivere in condizioni impossibili, spostando così il focus dell’attenzione dal “malato”, cioè da colui che sviluppa sintomi, alla comunità disfunzionale che grazie a questo disagio può continuare a vivere immutata. Era un ribaltamento di prospettiva radicale, che metteva in discussione completamente l’idea di “normalità” portando sotto la lente d’ingrandimento una società repressiva e conformista che aveva bisogno di rinchiudere nei manicomi ogni forma di dissenso per autoconservarsi. Così sul lettino dello psichiatra finivano parenti e amici del paziente più ancora che il paziente stesso. Siamo già completamente nel territorio di Joke: a essere folle non è Arthur (almeno non all’inizio) ma la Gotham City violenta e plutocratica che lo condanna alla marginalità e ne neutralizza la comprensibile rabbia con gli psicofarmaci, tanto che quando la sua libido finalmente si libera trasformandolo nel Joker è difficile per gli spettatori non giustificarne la violenza. Come il pianeta Melancholia nell’omonimo film di Von Trier, uno dei migliori film sulla depressione e la sua cura che mi sia mai capitato di vedere, Arthur guarisce dalla malinconia che lo affligge liberando il proprio desiderio di vendetta e distruzione.

Joker mostra anche piuttosto bene come la teoria del “non era depressione, era capitalismo”, se non compresa a livello psichico profondo, corra il rischio di iniziare una rivoluzione conservatrice, nella quale tutto deve cambiare per non cambiare niente: il film di Phillips ha il pregio di ribaltare la prospettiva dello spettatore su Batman, mostrandoci Bruce Wayne come un eterno bambino intrappolato nel proprio trauma familiare, paladino non della giustizia ma del privilegio dei più forti, ma alla fine della rivolta di Arthur dobbiamo anche prendere atto che Gotham City è passata dalle mani di plutocrati a quelle di uno psicotico completamente fuori controllo: che poi è una delle maniere in cui finisce il neoliberismo, come ha dimostrato l’America di Trump. Difficilmente viene da pensare che il disagio mentale da cui sono afflitti quelli come Arthur scomparirebbe nella Gotham City tornata alla violenza primordiale di cui si fa promotore il Joker. Il problema, qui, è che Arthur non si accorge, o più probabilmente non si cura, di come il suo desiderio di uomo marginalizzato e represso sia sostanzialmente quello di diventare detentore della violenza che ha subito per infliggerla ad altri. Il ciclo della violenza non si spezza ma si procrastina sotto forme solo apparentemente nuove (si veda a riguardo il lavoro di Paulo Freire).

Come accennavo sopra, la differenza che c’è tra i sostenitori della posizione per cui “non era depressione, era capitalismo” e gli esponenti dell’antipsichiatria degli anni Sessanta e Settanta (ma anche intellettuali persino più radicali come Ivan Illich, che avevano già ben chiaro quarant’anni fa come all’interno della macchina capitalistica la cura sia spesso peggio della malattia) mi pare si trovi in una scarsa legittimazione da parte dei secondi del valore del disagio psichico: nella nostra epoca di trionfo del Reale, l’idea che l’interiorità abbia un significato suona novecentesca.

Fisher stesso, il cui pensiero è pur fortemente influenzato da concetti psicanalitici, fatica a legittimare quest’influenza, concentrandosi prevalentemente sugli aspetti impersonali della psicanalisi: il suo inconscio è sempre un inconscio “esterno”, come nella sua celebre formulazione del weird come forma di perturbante che si situa completamente dal lato del non familiare, del “fuori”. In quest’enfasi per l’esteriore e il non-umano, dunque per ciò che si trova tutto dalla parte del Reale, a perdersi è l’idea della psicanalisi classica che l’interno e la soggettività abbiano un valore.

Per la psicanalisi novecentesca, il disagio mentale ha un significato: dice che qualcosa non va come dovrebbe, è insieme un atto di accusa e un grido d’aiuto. (In questo, pensavo qualche mese fa mentre guardavo SanPa, la serie Netflix su San Patrignano, Muccioli era uno psicologo più fine di quanto siano oggi quasi tutti coloro che parlano di salute mentale: senza aver letto Lacan aveva capito istintivamente che nell’epoca dell’assenza di padri inaugurata dal neoliberismo, chi soffre cerca un Padre: il suo errore, semmai, era stato quello di identificarsi con il simbolo, aderire acriticamente all’archetipo.)

Ciò che gli esponenti dell’antipsichiatria hanno fatto negli anni Sessanta e Settanta è stato spostare il metodo psicanalitico dal singolo alla società, mostrando che la sofferenza dell’individuo somatizzava la malattia della collettività. Quarant’anni dopo la Legge Basaglia, i manicomi sono chiusi sulla carta ma una quantità sempre crescente di persone sofferenti viene patologizzata e narcotizzata dai tranquillanti, mostrando come al potere repressivo della società conformista pre-Sessantotto si è semplicemente sostituito il soft power seduttivo del neoliberismo senza che la sostanza sia granché cambiata. Purtroppo né Fisher né tantomeno i suoi seguaci hanno fatto nulla per riprendere quell’insegnamento. La sofferenza in quanto tale, in Fisher, non ha valore in sé: al di fuori della sua causa storico-politica è poco più che il prodotto di scarto della macchina di cui siamo (e di cui sempre saremo, perché nell’epoca del capitalismo avanzato non siamo mai veramente persone) semplici ingranaggi.

Per questo capita sempre più frequentemente di trovarsi di fronte ad attivisti per la salute mentale che paradossalmente non attribuiscono nessun significato al disagio: perché in fondo la teoria del “non era depressione, era capitalismo” legge l’essere umano come la macchina in cui il cui il capitalismo l’ha trasformato. Proprio come Naomi Osaka, oggi tutti noi siamo replicanti intrappolati nella nostra condizione di non-vivi (“troppo morti per essere vivi, troppo vivi per essere morti”, nella formulazione di Byung-Chul Han), incapaci di percepirci come esseri viventi dotati di un valore: ci ribellaiamo alla performance che ci opprime soltanto per imporre a noi stessi nuove performance, vogliamo distruggere l’immagine narcisistica imposta dal capitalismo senza renderci conto che quello stesso narcisismo è dentro di noi. Come nel caso di Joker, non serve a nulla decapitare i plutocrati se lo scopo ultimo è quello di prendere il loro posto: proprio il modo in cui il neoliberismo ha inglobato e sfruttato per i propri fini le rivolte degli anni Sessanta dovrebbe averci insegnato che ci vuole più che fuoco e barricate per far crollare la macchina.

Ciò che invece l’antipsichiatria aveva intuito è che la macchina può venir distrutta solo dall’interno. Che è necessaria innanzitutto una rivoluzione mentale perché un sistema di potere venga disinnescato: in questo Laing condivide più posizioni con Timothy Leary e con il movimento psichedelico di quante ne condivida con la posizione fisheriana sul malessere psichico (il fatto che Fisher fosse arrivato, con Acid Communism, a un punto di sintesi tra i due aspetti mi pare significativo. Purtroppo com’è noto il testo che ci ha lasciato è un frammento, quindi possiamo solo immaginare dove sarebbe andato a parare il discorso).

Questa rivoluzione psichica avviene solo se al disagio mentale viene dato un valore, se lo si fornisce di significato. I sostenitori della tesi per cui “non era depressione, era capitalismo” questo significato lo forniscono solo a metà: accettano di attribuirlo solo a patto che i responsabili siano tutti esterni a noi, proiettati su un’entità aliena e impersonale di cui siamo vittime. Ma come sapeva già bene Lacan, che non per niente parlava della depressione come di una “viltà morale”, la presa in carico del proprio desiderio è il primo passo per usicre dalla malinconia. Senza di essa si rimane intrappolati in un lutto senza oggetto e dunque senza via d’uscita.

Proiettare il desiderio verso la fine del capitalismo o, nella visione accelerazionista, nel caos sociale che precederà il crollo della grande macchina, è evidentemente anche una maniera di non prendersi carico delle conseguenze sul qui ed ora di questo desiderio. Almeno in parte, come dicevo sopra, è addirittura un modo di proteggere l’ordine dominante, e nello specifico quel genere di ordine dominante che incontriamo tutti i giorni nei luoghi in cui la dimensione privata e quella collettiva, quella personale e quella sociale vengono a intersecarsi: nella famiglia e nelle reti di relazioni significative. Non è un caso che gli interventi di Laing andassero a situarsi, metforicamente, sempre sulla soglia di casa, coinvolgendo non solo il “malato” ma anche la sua familgia e la rete sociale in cui era immerso. Ciò che l’antipsichiatria aveva capito, e che rendeva il suo messaggio veramente minaccioso per lo status quo, è che la famiglia e l’educazione in generale sono il luogo in cui e pressioni di una società vengono trasmesse ai figli: per questo mettere in discussione la propria società è per forza di cose mettere in discussione la propria famiglia, e per questo non c’è rivolta che non sia innanzitutto una rivolta generazionale. Non è forse significativo che la ribellione di Arthur Fleck, l’atto che lo trasforma definitivamente da Arthur a Joker, il momento in cui si riappropria della propria libido repressa sia l’omicidio della madre?

Nella nostra epoca senza conflitti ma segnata dalla “frattura verticale” di cui parla Recalcati, invece, la dimensione fondamentale della famiglia è completamente bypassata: il problema va cercato nello squilibrio chimico del cervello o nel capitalismo, cioè in entrambi i casi in fattori impersonali che non richiedono nessuna reale assunzione di responsabilità perché posti al di fuori del nostro controllo. Trovo affascinate constatare quanti miei coetanei che si dicono anticapitalisti siano del tutto pacificati nei confrinti della generazione dei loro genitori, che sono coloro che con azioni scellerate li hanno trasformato l’Occidente in questa terra desolata e portato il Pianeta sull’orlo della catastrofe climatica.

Disinnescare i meccanismi di potere con cui la famiglia trasmette e impone i modelli di un’epoca alle nuove generazioni significa andare a colpire la catena di produzione del dolore nel suo cuore: un buddhista direbbe che significa interrompere il ciclo di nascita e morte, uscire dal samsara. Se una cosa ci ha insegnato il capitalismo negli ultimi quarant’anni è che nessuna iniziativa anticapitalistica è, di per sé, realmente dannosa per il sistema, e che anzi è probabile che il sistema sia in grado di sfruttare l’energia libidica di ogni rivolta per i propri fini.

La macchina capitalistica, come ogni macchina politica e sociale, e come la mente stessa, somiglia più al dispositivo di tortura della Colonia penale di Kafka che alla Skynet di Terminator: è sempre un meccanismo che vive sulla nostra carne viva, interno ed esterno a noi stessi, più che un’entità aliena che ci è stata imposta dall’esterno. E noi stessi siamo come il secondino del racconto di Kafka, gioiosi nel momento in cui ci gettiamo tra i suoi ingranaggi per venirne distrutti, un aspetto che Lacan (e prima di lui Lyotard, Deleuze e Guattari) aveva compreso molto bene, ma che mi sembra si perda nelle semplificazioni a cui il pensiero in senso lato fisheriano sul disagio mentale sta andando incontro in questi anni.

Spesso, effettivamente, le ragioni del nostro disagio “non sono depressione, sono capitalismo”. Ma il capitalismo va trovato, e sconfitto, dentro di noi, nelle reti delle nostre relazioni più intime, nella messa in discussione dei nostri desideri e delle nostre aspettative per il futuro. La mente va liberata prima di tutto, altrimenti non c’è potenzialità trasformativa ma solo l’illusione di una rivolta che non arriva mai.

Forse la macchina si spegnerà una volta per tutte nella “psicodeflazione” di cui parla Bifo, sempre che la psicodeflazione non sia soltanto uno dei ciclici depressivi del bipolarismo capitalista che attraverso la distruzione crea nuovi mercati, rigenerando sé stesso all’infinito. Ma che si spenga nel vuoto senza sentimenti della depressione o si incendi nel caos apocalittico della libido incontrollata ben poco alla fine cambierà. Una nuova macchina (simile o diversa, poco importa) nascerà dalle ceneri di quella precedente, e il ciclo del dolore inizierà nuovamente.

La psicodeflazione ci dà la possibilità di cambiare tutto, ma per farlo dobbiamo ascoltare il sintomo di questa depressione crescente. Se lo facciamo siamo anche costretti a farci delle domande scomode: a cosa siamo in grado a rinunciare facendo a meno del capitalismo? Quanto siamo disposti a perdere?

(Nella foto: un’opera di Darren Cullen)

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