A giugno ho letto tanto e (cosa piuttosto rara per me) soprattutto libri pubblicati da poco. Ne segnalo quattro:
Emanuela Carbé, Jacopo La Forgia, Francesco D’Isa, Trilogia della catastrofe (Effequ)
Siccome la catastrofe non solo non passa mai di moda, ma diventa più attuale ogni giorno che passa, un libro con questo titolo avrebbe catturato la mia attenzione anche se non fosse stato pubblicato da Effequ, che sulla saggistica sta facendo un lavoro eccellente, e se tra gli autori non ci fosse il direttore dell’Indiscreto Francesco D’Isa. I tre pezzi che compongono il lavoro (dedicati al prima, al durante e al dopo la catastrofe) sono quanto più diverso l’uno dall’altro si possa immaginare: quello di Carbé è un brillante esercizio di scrittura calviniana, quello di La Forgia un interessante e ben scritto reportage sul genocidio dei comunisti indonesiani del 1965 mentre quello di D’Isa un saggio su un tema che a me sembra cruciale: quello del nostro rapporto con la morte. In particolare, il saggio di D’Isa credo meriti una lettura approfondita, perché in un’epoca segnata dalla minaccia dell’estinzione come quella attuale, continuare a distruggere il pianeta per non fare i conti con l’inevitabilità della fine è un gioco destinato, appunto, alla catastrofe. Siccome poche epoche come la nostra hanno rimosso la morte dal discorso culturale, oggi più che mai è importante riflettere sul significato che essa occupa al centro della vita e trovare un modo di gestire l’ansia meno distruttivo di quello attuale. Da quel che so, D’Isa è uno dei pochi ad aver affrontato il tema (con l’eccezione di Roy Scranton, il cui Learning to die in the Anthropocene viene citato nel testo ma per qualche ragione non è ancora stato tradotto in italiano).
Vanni Santoni, La scrittura non si insegna (minumum fax)
Sono un amante dei manuali di scrittura e ancora di più di quelli firmati dagli scrittori, proprio come sono un amante dei libri di autoaiuto (categoria che leggo con più frequenza dei saggi sulla scrittura, devo ammettere) anche perché, come scrivevo non molto tempo fa, una parte di me sta sempre cercando il set di regole segrete che trasformi questa attività faticosa e solipsistica che mi sono condannato a fare in qualcosa di semplice o, quantomeno, più immediato: la formula alchemica che tramuti l’argilla delle parole nel Golem di un romanzo. Rispetto ad altri autori di testi sulla scrittura (Stephen King o Natalie Goldberg, che pure reputo un libro fondamentale), Santoni ha il pregio di essere anche un eccellente critico o meglio, se mi si passa il linguaggio mistico, un critico “illuminato”: se volete capire cosa intendo leggetevi i suoi pezzi sui romanzi senza finale o andate a ripescarvi quella volta in cui, parlando del futuro del romanzo, disse citando Roberto Bolaño che “se i capolavori sono sequoie o orchidee, non si è tuttavia mai vista una sequoia o un’orchidea fuori da una foresta; così, anche scrivere un’opera imperfetta significa contribuire al mantenimento di quel bosco dove un giorno sboccerà una nuova orchidea”. Ecco cosa intendo per illuminato: qualcuno che guarda alla big picture. Se sopravvivete alle liste della prima parte, che sono impressionanti e un po’ spaventose (ma piuttosto accurate, per quanto io mi sia scoperto uno studente meno preparato di quanto mi sarebbe piaciuto pensare), troverete consigli che tutti coloro che scrivono seriamente dovrebbero seguire, non solo gli aspiranti.
Luca Molinari, Le case che saremo (Nottetempo)
Nella scrittura di Essere senza casa ha giocato un ruolo importante un libro pubblicato da Nottetempo nel 2016, Le case che siamo, dedicato al rapporto tra case e città. Quattro anni più tardi, Le case che saremo è un piccolo spin-off che adatta il discorso al tempo del Covid e può essere scaricato gratis dal sito dell’editore. Le case che saremo apre una porta su quegli aspetti che in Essere senza casa non sono sufficientemente approfonditi visto che il mio libro è uscito prima dello scoppio della pandemia e in qualche modo porta il discorso sul lato in ombra della casa come luogo protetto (come “tentazione del muro”, direbbe Recalcati) di fronte alle minacce dell’esterno, concludendone, credo giustamente, che la spinta alla chiusura e all’isolamento domestico provocata dal Covid è quanto di più pericoloso possa esistere. Discorso per me fondamentale e su cui non mi dilungo troppo perché spero di tornarci presto, in una forma o nell’altra.
Ade Zeno, L’incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri)
Oggi è la prima giornata del Campiello e tra i finalisti sono stato contento (e anche un po’ sorpreso) di trovare questa bella fiaba dell’orrore. Il fun fact sull’argomento è che io e Zeno abbiamo condiviso lo stesso spazio autogestito all’università di Torino per quasi dieci anni durante i quali ci saremo scambiati sì e no dieci parole, vedendoci in certi periodi quasi tutti i giorni e collaborando a progetti culturali; e siccome internet è una (psico)geografia alternativa sovrapposta a quella fisica, il suo lavoro è sempre stato più lontano dai miei radar rispetto a quello di autori che abitavano a migliaia di chilometri di distanza e che non avrei mai conosciuto personalmente. Circostanza di cui mi dispiaccio, perché L’incanto del pesce luna merita la candidatura al (vero) premio più importante d’Italia. La sorpresa deriva dal fatto che è un romanzo cupo, dalle tinte scurissime, che mi ha fatto pensare a quel bell’articolo di Franco Pezzini sul gotico torinese uscito su Carmilla qualche tempo fa. Dentro ci ho trovato Bolaño e Wilcock, ma anche Ligotti, Houellebecq e Giorgio De Maria.
Una replica a “Segnalazioni – giugno”
[…] segnala Gianluca Didino, qua; Davide Barilli ne scrive su La Gazzetta di […]