Nonostante viviamo in un mondo grafomane, in cui tutti scriviamo di tutto (post, whatsapp, chat, email, tweet, report, diari), le forme tradizionali dell’editoria sono rimaste pressoché immutate da secoli: continuiamo a scrivere, vendere e leggere sostanzialmente romanzi, racconti e saggi. La scrittura talvolta ottima che produciamo in contesti non letterari non solo in grandissima parte non trova spazio nei libri pubblicati (non a causa degli editori ma perché si sottrae alla categorizzazioni e mal si adatta alle regole rigide delle forme editoriali) ma sembra non modificare nemmeno più di tanto i generi nel loro sviluppo storico: il romanzo al tempo di internet non è poi tanto diverso dal romanzo al tempo della televisone o della radio, e questo nonostante le nostre abitudini di lettura e scrittura siano cambiate moltissimo. Recentemente l’innovazione più importante è stata quella dell’autoficition, ed è un’innovazione a mio avviso molto parziale, perché è discutibile quanto l’autofiction sia un adeguamento del saggio (o del romanzo) al mondo di internet e quanto sia invece un ritorno a un’origine in cui fiction e non-fiction non erano nettamente divise (probabilmente, ipotizzo, è in parte entrambe le cose). Le forme tradizionali continuano a funzionare perché affondano le radici nella maniera con cui la mente costruisce il senso, e questo non cambierà finché l’evoluzione biologica o artificiale ci trasformerà in qualcosa di diverso da quello che siamo, ma provo disagio di fronte alla loro incapacità di rendere conto dell’esperienza che faccio del mondo (che è molto più frammentata) e di includere pratiche di assorbimento e produzione della conoscenza che sono decisamente meno lineari di ciò che quelle forme richiedono.
Per fare un esempio concreto uno scrittore dell’Ottocento passava la gioranta seduto nel grande studio della sua casa di campagna, senza preoccupazioni economiche, leggeva i pochi romanzi degni di nota pubblicati ogni anno, li dibatteva con un circolo di amici che vedeva in faccia, aveva il tempo di rifletterci e scriveva a sua volta un romanzo – un percorso tutto sommato lineare. Uno scrittore del 2020 legge frammenti più o meno lunghi di diverse decine di libri l’anno, assorbe conoscenza attraverso serie TV, podcast e le centinaia di articoli che ogni giorno arrivano nel suo feed reader, dibatte di ciò che legge attraverso molti mezzi di comunicazione diversi, prende appunti mentre è al lavoro o durante gli spostamenti in metropolitana ma poi, in maniera piuttosto incongruente, gli viene richiesto comunque di pubblicare il risultato di questa esperienza sotto forma di romanzo – cioé di produrre scrittura per un contenitore che non riflette se non in minima parte la sua esperienza del mondo o il suo panorama mentale. Non è piuttosto anacronistico? E non è forse anche per questo che oggi la comunità letteraria è meno rappresentativa della società in generale di quanto lo fosse un tempo, visto che nonostante il mondo sia cambiato agli scrittori viene ancora richiesto di veicolare le proprie idee attraverso canali antichi di secoli?
(Nell’immagine: Charles Dickens nel suo studio)
Una replica a “L’anacronismo del romanzo”
[…] ha lasciato la scrittura (e specialmente la narrativa) quasi del tutto intoccata. Di recente facevo questo esempio: uno scrittore dell’Ottocento leggeva romanzi, aveva il tempo e viveva in un luogo adatto […]