Amanda Knox tra realtà e finzione

Amanda Knox, il documentario di Netflix che è considerato il miglior racconto finora dei noti fatti di Perugia, mi ha ricordato The Jinx, The Imposter e Gone Girl:  nell’ordine un documentario che racconta una storia troppo incredibile per essere vera, un’opera che ibrida realtà e finzione con risultati disturbanti e un film su come la fiction in cui siamo tutti immersi alteri profondamente la percezione della realtà, posto che siamo troppo narcisisti per non fare di noi stessi l’oggetto di un racconto continuo.

Il motivo di queste associazioni è fin troppo chiaro: Amanda, nel documentario a lei intitolato, recita, e con lei tutti gli altri attori di quel grande thriller in otto stagioni della mia generazione che è stato l’omicidio di Meredith Kercher. Tutto normale, eccetto che Amanda, in teoria, non dovrebbe essere un’attrice. Ma il setting in cui viene intervistata, seduta su uno sgabello davanti a uno sfondo grigio astratto, suggerisce che non ci sia nulla di strano nel fatto che questo stereotipo della ragazza qualunque sia tanto brava a enfatizzare le pause e i momenti di tensione con la voce e i movimenti del corpo. Il racconto si sovrappone alla realtà diventandone una versione insieme aumentata e stilizzata – cioè non si sostituisce alla realtà ma fa della realtà stessa una fiction.

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