Charlie Hebdo, la domanda sbagliata

Ecco cosa mi colpisce dopo aver letto e riletto l’editoriale di Charlie Hebdo  del 30 marzo: nel gennaio 2015, dopo la sparatoria alla sede del settimanale, un coro di critiche aveva accolto l’articolo di Teju Cole pubblicato sul New Yorker in cui lo scrittore statunitense criticava i toni aggressivi dei vignettisti francesi; poco più di un anno dopo capita l’esatto contrario, con Charlie Hebdo accusato di razzismo e l’opinione di Teju Cole – questa volta espressa tramite un post su Facebook – indicata dai progressisti come esempio di pensiero liberale. Tanto Charlie Hebdo che Teju Cole sono rimasti sulle loro posizioni, rispettivamente convinti che la diffusione dell’Islam in Europa comporti una minaccia per i valori laici dell’Occidente e che la demonizzazione della religione musulmana abbia poco a che vedere con questi valori. Vero che nel gennaio 2015 c’era appena stata una strage, e che l’emotività è sempre il fattore principale nel guidare le argomentazioni; ma è anche vero che da allora in Europa ci sono stati altri due attentati terroristici di matrice islamica che hanno ucciso in tutto 160 persone qualunque, non vignettisti militanti impegnati nella lotta senza quartiere contro qualsiasi forma di costrizione della libertà di parola, l’ultimo dei quali solo otto giorni prima della pubblicazione dell’editoriale di Charlie Hebdo. Quindi mi chiedo, c’è una differenza qualitativa tra questi attacchi – gennaio 2015, novembre 2015, marzo 2016 – tale da suscitare reazioni così opposte? Ci siamo assuefatti all’idea della violenza per le strade delle nostre capitali? Ancora più interessante mi sembra il fatto che le posizioni di Cole vengano sostenute oggi sulla base delle stesse ragioni per cui venivano attaccate ieri, cioè la difesa della laicità e del libero pensiero, il che naturalmente è anche il motivo per cui Charlie Hebdo fa quello che fa provocando le critiche dello stesso Cole. Questo mi fa dire che la definizione dei valori dell’Occidente è oggi quantomeno poco condivisa e necessita di essere ripensata dalle fondamenta.

Non per niente l’editoriale stesso riesce a essere completamente dalla parte del torto e allo stesso tempo a sollevare un punto a mio parere centrale di tutta la questione, l’efficacia operativa delle categorie su cui impostiamo il nostro dialogo interculturale. Dire che il commerciante halal e la donna con l’hijab sono la parte nascosta di un iceberg la cui punta è il terrorismo islamista – e che dunque tutti i musulmani in un modo o nell’altro sono responsabili delle stragi di Parigi e Bruxelles –  è chiaramente sbagliato e pericoloso, e com’è stato fatto notare da più parti assomiglia in maniera inquietante agli argomenti usati per giustificare l’antisemitismo in Europa alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo. Ma quando l’autore dell’editoriale scrive che Tariq Ramadan, il professore svizzero che a Oxford insegna che “il secolarismo (…) deve adattarsi al nuovo posto assunto dalla religione in Occidente” è allo stesso tempo “giudice e accusato”, non sta solo mostrando segni di paranoia (non fraintendetemi: sta certamente mostrando segni di paranoia) ma anche sollevando un punto interessante. Il liberalismo occidentale contiene in sé stesso la possibilità della propria negazione, perché crede che tutte le opinioni siano valide e legittimamente sostenibili, inclusa quella che nega il liberalismo occidentale. Il che è come dire: il destino dell’Occidente è un quadro di Escher in cui una mano disegna l’altra che la disegna a sua volta all’infinito, e questo rende l’Occidente stesso vulnerabile. Leggendo Sottomissione di Houellebecq questa sensazione di quieta catastrofe, di uno scenario impossibile che emerge dalle forme del quotidiano, è molto vivida, e molto inquietante. Le bombe esplodono in lontananza mentre gli accademici continuano il loro convegno in  un quartiere residenziale di Parigi: forse è soltanto paranoia ma, a parti invertite, anche le comunità ebraiche mitteleuropee degli anni Trenta non hanno creduto alle reali intenzioni del Reich fin quando non è stato troppo tardi.

Ovviamente sto esagerando, ma lo faccio per un motivo: per dimostrare che il paragone con gli eventi della seconda guerra mondiale può essere facilmente ribaltato e che tutta questa questione – Charlie Hebdo, il terrorismo islamista, l’Occidente e i suoi valori – è come una di quelle illusioni ottiche in cui ciò che vedi dipende dal punto in cui focalizzi lo sguardo. Un articolo di Adam Shatz sulla London Review of Books sottolinea ulteriormente questo punto raccontando la storia dello scrittore afroamericano James Baldwin che, chiedendo spiegazioni sul pestaggio da parte della polizia di un ‘arabo’ durante una visita in Francia nel 1948, si era sentito rispondere ‘Le noir américain est très évolué, voyons!’: di nuovo una questione di prospettive. L’articolo continua citando il caso della filosofa femminista Elisabeth Badinter, secondo la quale il velo è un segno di sottomissione della donna al punto tale che sarebbe giusto costringere le donne musulmane a farne a meno in nome dell’idea occidentale di emancipazione. In altre parole il sentiero verso la libertà d’espressione dovrebbe passare attraverso il divieto della libertà d’espressione, essendo che alla base del liberalismo occidentale sta anche l’idea che puoi metterti in testa quello che ti pare, un hijab come un cappello da cowboy. E dunque cosa dovremmo dedurne? Che Elisabeth Badinter è razzista? Che nega i valori dell’Occidente nel tentativo esasperato di affermarli? Questo mi sembra un perfetto esempio del paradosso della critica all’etnocentrismo: c’è qualcosa di più etnocentrico di sostenere che la maniera giusta di rapportarsi alle altre culture sia fare a meno dell’etnocentrismo?

Credo che valga la pena sostenere l’appello fatto da Teju Cole nel suo post di Facebook: leggete l’editoriale di Charlie Hebdo, e leggete anche il post di Cole stesso, e qualsiasi altra cosa riusciate a trovare sull’argomento. E fatevi un’idea vostra, perché sul terreno instabile dell’ideologia Occidentale al tramonto dell’Occidente non ci sono risposte facili, e anche le domande sono quasi sempre quelle sbagliate. Almeno su questo Charlie Hebdo ha sicuramente torto: il punto non è chiedersi come siamo arrivati qui, ma dove andiamo adesso. E a me sembra che per rispondere a questa domanda ci sia ancora molta strada da fare.

(Immagine: Wikipedia)

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