Questo è il racconto con cui parteciperò alle selezioni di Esor-dire, concorso per scrittori esordienti organizzato dalla Scuola Holden e da Scrittori In Città. Alcuni di voi l’avranno già letto nella prima stesura, comparsa su Boring Machines circa un anno fa: rispetto alla prima questa è nettamente più corta (circa 10.000 battute in meno) e, secondo me, decisamente migliore. Colgo l’occasione per ringraziare nuovamente Ivano Bariani per aver fatto il mio nome agli organizzatori del progetto.
I.
Madamadoré aveva molte belle figlie, Lucia Arazzi un solo figlio maschio. Non era quello che si sarebbe aspettata dalla vita: aveva sempre sognato una bambina con cui condividere i segreti della propria femminilità, e da qualche parte nel suo intimo era convinta che il responsabile di quell’unica imperfetta gravidanza fosse suo marito. Se n’era lamentata spesso e avrebbe continuato a lamentarsi se un bel giorno lui non avesse deciso di andarsene di casa come un ladro e non tornare più.
Adesso che da quella partenza erano passati più di quattro anni le capitava di chiedersi che fine avesse fatto l’uomo con cui aveva condiviso metà della sua vita. Ma i pensieri si confondevano subito, diventavano piccoli pesci luccicanti protetti da una boccia di vetro. Di fronte alle domande della gente aveva imparato a sorridere come se volesse abbracciare l’intero universo.
Il marito di Lucia Arazzi era un commerciante di polli ma per tutta la vita aveva creduto di essere un cowboy. Due cose riempivano i suoi pensieri: l’America e i cavalli. L’America non l’aveva mai vista e a cavallo c’era salito solo una volta da bambino, ma questo in fin dei conti non significava molto. I mercati erano per lui fiere campestri del vecchio Colorado e il camion rosso fuoco su cui passava i tre quarti del suo tempo un bel baio sbuffante. Nella cabina del cavallo erano appese foto delle riserve indiane dell’Oklahoma, e l’immagine di quelle distese di nulla infinito sarebbe stata sufficiente per fare di lui un uomo felice.
Questa era l’idea che per vent’anni Lucia aveva avuto dell’uomo con cui era sposata: un bambino di cento chili, un po’ stravagante ma innocuo.
Era quindi rimasta stupita più ancora che addolorata quando una notte di febbraio lui aveva infilato qualche vestito in valigia ed era salito sul camion. Dopodiché era scomparso e nessuno in paese l’aveva più rivisto.
Dopo questa partenza improvvisa le cose avevano preso una piega diversa. Per quattro lunghi mesi le imposte della casa azzurra degli Arazzi erano rimaste chiuse, l’erba che per la prima volta cresceva disordinata e selvaggia nel piccolo giardino. Poi, agli inizi dell’estate, Lucia era ricomparsa per le strade del paese con quel nuovo sorriso e di lì a poco aveva rilevato il negozio.
Già dall’insegna dorata, le grandi lettere in corsivo, era subito chiaro che il “Madamadoré” non era un esercizio commerciale come gli altri. Vendeva soprammobili e piccoli oggetti ornamentali, ma in realtà la sua missione era un’altra: chiedeva fiducia e donava fiducia. Era un regno di fragilità e perfezione, un baluardo contro lo scorrere del tempo.
Lucia aveva maturato l’idea di mettersi a lavorare durante quei lunghi mesi di silenzio. Sapeva bene che tutti in paese stavano parlando di lei e aveva avuto bisogno di meditare una risposta plausibile ai pettegolezzi. Alla fine aveva deciso di dedicarsi a qualcosa di carino, qualcosa che la gente non può fare a meno di amare. Dopo aver escluso i cuccioli aveva scelto di investire le sue energie nella cosa che più le piaceva nella vita, i ninnoli, appunto.
Così era nato il “Madamadoré”, con le sue stanze color carta da zucchero, le melodie scordate dei suoi vecchi carillon, le file di Pierrot sugli scaffali in rovere.
In realtà, com’è facile immaginare, di ninnoli non ne comprava quasi più nessuno: già da parecchi anni in paese erano fioriti i negozi di videogiochi e le boutique d’alta moda, i bambini preferivano gli sparattutto alle bambole di pezza e le signore l’artigianato etnico alle culle di legno intarsiato esposte nella vetrina del “Madamadoré”. Ma Lucia Arazzi era benestante di famiglia e c’era sempre qualche donna di mezza età che non disdegnava di passare una mezzora in quella specie di paradiso delle fiabe chiacchierando con lei del più e del meno.
Lucia poi in quel momento aveva molto bisogno di parlare, e avrebbe parlato con tutti fuorché, s’intende, con i cowboy. Ma di cowboy per sua fortuna al “Madamadoré” non ne entrarono mai.
L’estate in cui il figlio di Lucia Arazzi ebbe la malaugurata idea di crescere fu un’estate torrida. Il sole sorgeva alle sette e restava piantato in mezzo al cielo fino alle nove di sera. Dopo quell’ora si poteva cominciare a vivere.
Il ragazzo si chiamava Diego, ma tutti lo conoscevano come Custer perché una volta si era presentato a scuola vestito da generale nordista con una vera Smith&Wesson carica nel cinturone. Questo era successo l’anno in cui suo padre se n’era andato, poco dopo che le imposte della casa azzurra si erano riaperte. Era stato quando i compagni di classe avevano cominciato a prenderlo in giro per il travestimento che il futuro Custer aveva estratto la Smith&Wesson.
Dopodiché c’era stato un parapiglia generale e il ragazzino era stato trascinato in presidenza. Allo psicologo scolastico aveva detto di aver trovato la pistola in soffitta, mentre il vestito era un vecchio abito di carnevale di quand’era bambino. Era stato convincente nel dimostrare che non aveva intenzione di usare la pistola ma non era riuscito a giustificare in alcun modo lo scopo di quella messinscena.
“Era solo uno scherzo”, aveva detto, poi si era chiuso in un mutismo pressoché totale. Con il passare dei mesi la gente aveva finito per credergli, ma intanto il giovane Diego si era irrimediabilmente trasformato in Custer.
Da quel giorno erano passati ormai quattro anni e sul mento di Custer stavano spuntando i primi peli. Nel corso di quell’arco di tempo Diego e suo padre avevano ripreso a vedersi di tanto in tanto. Il ragazzo però non raccontava mai nulla di quegli incontri a Lucia e lei si guardava bene dal fare qualunque tipo di domanda.
L’estate in cui Custer lasciò i territori sicuri dell’infanzia per avventurarsi nel roveto dell’adolescenza fu segnata da un fatto curioso che coinvolse l’intero paese: il caldo sahariano di agosto aveva portato con sé la migrazione di milioni cavallette nordafricane, e i piccoli insetti neri, la cui forma particolarmente appiattita faceva pensare a scarafaggi, si attaccarono come coriandoli alle vetrine dei negozi e ai parabrezza delle auto per non muoversi più.
Producevano un lieve rumore ronzante simile allo sbattere d’ali di un piccolo uccello, monotono ma dolce.
Nell’arco di poche settimane tutto il paese ne fu invaso, e cullato da quella melodia ipnotica sprofondò in un sonno placido e senza sogni.
Questa vicenda degli insetti aveva riportato alla mente di Diego una cosa successa qualche mese prima, che l’aveva profondamente turbato senza che nemmeno lui sapesse perché.
Era inverno, Diego aveva cenato con il padre in una grossa pizzeria ai bordi della strada provinciale ed era tornato a casa. Lucia era ancora sveglia. L’aveva accolto con il suo sorriso che sembrava panna, senza alcuna domanda.
Poi Diego era andato in cucina e aveva scoperto che attorno alla serpentina del frigorifero aveva nidificato un’intera colonia di scarafaggi.
Aveva subito avvertito sua madre, e la scena che ne era seguita era stata divertente e disgustosa al tempo stesso: lui aveva spostato il frigo mentre Lucia si era data da fare con uno speciale prodotto contro i parassiti. Gli insetti però correvano di qua e di là, si infilavano sotto i mobili e nei telai delle porte, madre e figlio un po’ li inseguivano con la scopa e un po’ fuggivano disgustati. Finita la caccia erano tornati a guardare la televisione in salotto, ancora inebriati dall’euforia che quella piccola avventura aveva portato con sé.
Nei giorni successivi però Diego era stato tormentato da un pensiero che continuava a venirgli in mente nonostante facesse di tutto per scacciarlo.
Aveva immaginato il “Madamadoré” straripante di scarafaggi, gli insetti che camminavano sulle culle intarsiate e sui Pierrot, sulle bambole di pezza, sui carillon. Scarafaggi che si arrampicavano sulle pareti, che uscivano dai rubinetti e dal pavimento. Scarafaggi dappertutto, fino a quando tutto, il “Madamadoré” ma anche qualcos’altro che Diego non riusciva esattamente a definire, tutto era soltanto una macchia nera di insetti, una palla di materia scura, viva e strisciante.
Nei mesi successivi non aveva più pensato a quella storia. Poi, improvvisamente, era tornata l’estate.
II.
Nella casa azzurra le imposte erano di nuovo chiuse, uno schermo scuro contro il caldo accecante. Le strade erano silenziose in maniera innaturale. In certe ore del giorno l’unico rumore che si poteva sentire era quello delle cavallette, il loro brusio intimo e costante. Dietro le tende color confetto Diego e Lucia si incontravano per brevi istanti, simili a fantasmi nell’aria ondulata dal sole. Apparivano e scomparivano nel cono d’ombra del ciliegio in giardino. Loro due soli: il cowboy adolescente e il sorriso di sua madre che sembrava riempire la galassia.
Lucia andava ogni mattina al “Madamadoré”, incurante del fatto che i suoi clienti migliori fossero in vacanza in Tunisia o a Kuala Lumpur. Pranzava a casa con Diego, poi il pomeriggio tornava in negozio.
Quell’estate faceva troppo caldo per uscire e così il giovane Custer passava ore e ore da solo nella grande casa e si guardava allo specchio. C’era qualcosa di nuovo nel suo volto ma non capiva cosa. L’espressione? Il principio di barba sul mento e sotto il naso? Non lo sapeva e forse non voleva saperlo. La sera, quando finalmente quel sole da mezzogiorno di fuoco calava dietro le sagome delle montagne, lasciava le ombre protettive della casa e incontrava i suoi amici. Ma anche in loro c’era qualcosa di diverso rispetto al passato. Parlavano in maniera diversa e sembrava che dentro di loro si stesse combattendo una guerra senza eserciti ma piena, stracolma di esplosioni.
Diego guardava i loro occhi attoniti e ci vedeva il suo stesso stupore. C’era qualcosa da dire, ma nessuno sapeva come dirlo.
Le parole galleggiavano tra di loro come bolle di sapone, restavano ferme a mezz’aria e poi scomparivano.
A volte gli capitava di avere paura. Non sapeva esattamente cosa lo spingesse lontano dalla solitudine della casa, dal suo silenzio e dagli specchi che lo fissavano con espressione di rimprovero. Si rifugiava al “Madamadoré” perché non esisteva per lui miglior ansiolitico che il negozio di sua madre, con tutti quegli oggetti che non conoscevano lo scorrere del tempo.
Lì gironzolava per le stanze o aiutava Lucia a fare i pacchetti regalo: la sensazione del raso dorato sotto le dita lo confortava, aveva il potere di ipnotizzarlo. Altre volte si sedeva a terra e caricava un carillon, poi stava ad ascoltarne la melodia assorto come durante una preghiera.
La musica fluiva come gocce d’acqua sul cristallo e i pensieri si confondevano, si facevano anch’essi d’acqua, come in un sogno.
Lentamente ma inesorabilmente uno strano senso di assenza si era impossessato delle sue giornate. Qualcosa dentro di lui si muoveva maniera circolare, come se la mano di un gigante l’avesse sollevato da terra e ora lo stesse cullando con dolcezza infinita. Ma il negozio era sempre lo stesso, la camera da letto in cui passava la maggior parte del suo tempo era sempre la stessa: pareti azzurre, scaffali ordinati, i libri di scuola. E l’assenza a guardarla bene era stupore. Sgomento. Come dire: “Che ci faccio qui? Che mi sta succedendo?” Il bambino che era in lui guardava il teatro di un’imminente Little Big Horn e non si decideva a suonare le trombe. Custer in quel momento era da tutt’altra parte, oppure non era mai esistito.
Poi arrivò agosto.
Con la migrazione della cavallette africane lo stato di Diego subì un’ulteriore accelerata: cominciò a cadere addormentato nei luoghi, alle ore e nelle posizioni più improbabili. Guardando la televisione alle tre di pomeriggio di colpo si metteva a dormire come un sasso. Si sedeva alla scrivania di camera sua e crollava con la testa tra le braccia. Una volta si addormentò su una panchina mentre parlava con un gruppo di amici, ma fu solo per un attimo e fortunatamente nessuno si accorse di niente.
Tutto questo addormentarsi in maniera pressoché casuale contribuì non poco a confondere ulteriormente i suoi pensieri. Alle volte gli capitava di svegliarsi intontito da qualche parte e di non ricordare assolutamente cosa stesse facendo prima di sprofondare nel sonno. I giorni cominciarono ad accavallarsi, le ore di luce si confondevano con quelle di buio. Certe notti non riusciva a dormire, allora andava in giardino e restava a guardare la luna come un licantropo. E in effetti questo si sentiva, un licantropo. Alla fine successe qualcosa.
Era un pomeriggio di metà agosto. Diego dormiva placidamente sul letto di camera sua quando si svegliò di colpo e si tirò a sedere. Rimase un attimo in quella posizione, immobile. Si sentiva particolarmente confuso. Che ore erano? La stanza azzurra era invasa da una penombra polverosa e sonnolenta. Andò alla finestra e aprì una feritoia nelle tende di lino bianco. Fuori il cielo era senza colore. Aveva già cenato? Non ricordava. Scese in salotto per cercare sua madre ma non riuscì a trovarla. Si lasciò cadere sul divano e si addormentò.
Quando si svegliò era di nuovo in camera sua, ma questa volta era notte. Non sapeva che ore erano e non cercò un orologio per scoprirlo. Ora non si sentiva più confuso. C’era una chiarezza, dentro di lui, un’urgenza. Si alzò meccanicamente dal letto e si rese conto che indossava un pigiama. Quando si era cambiato? Senza pensare a quello che stava facendo si spogliò nudo e si guardò allo specchio. Poi aprì l’armadio dei vestiti, prese le prime cose che gli capitarono sotto mano e scese le scale.
Aveva fatto soltanto un paio di gradini quando un’immagine attraversò la sua mente. Mancava qualcosa. Tornò indietro e si diresse verso la soffitta.
Da qualche parte nel buio, in un angolo sotto il lucernario, c’era un piccolo baule. Lo aprì. La Smith&Wesson era lì dentro, coperta dalla fodera di velluto rosso, esattamente come l’aveva trovata la prima volta. Controllò: era carica.
In salotto non accese nemmeno le luci. Aprì la porta d’ingresso e uscì. Per un attimo rimase immobile nell’aria fresca che a quell’ora non aveva più nessun odore, sentiva solo l’umidità sulla pelle e il rumore strisciante delle cavallette contro i vetri delle case. Guardò la luna piena che rischiarava le strade.
Poi si mosse. Doveva andare.
La mattina dopo fu svegliato da sua madre. Lo venne a chiamare in camera e gli disse che doveva parlargli. Lui si alzò e si vestì in fretta, poi scese al piano di sotto.
Lucia lo aspettava nella grande cucina bianca, seduta al tavolo sul quale era stata preparata un’abbondante colazione. Gli chiese come stava e lui disse che non c’era male. Gli chiese se avesse dormito bene e lui rispose di sì. Sua madre sorrideva fissando un punto indistinto sulla tovaglia di un bianco abbacinante. Alla fine disse: “Questa notte qualcuno ha distrutto il negozio”.
Aveva pronunciato quelle parole in fretta, senza smettere di sorridere. Dietro quel sorriso però Diego intuiva fiumi di lacrime. Allora gli tornò in mente la pistola e si sentì svenire. Cos’ho fatto, pensò. Ma non riusciva a ricordare. Nella sua memoria la notte precedente era un enorme buco nero, profondo come un abisso.
Avrebbe voluto finalmente mettersi a piangere e chiedere scusa a sua madre, per la pistola e per i carillon distrutti del “Madamadoré”, per la barba che stava cominciando a crescergli e per la paura che ormai da mesi provava di sé stesso.
Ma non fece niente. Rimase immobile, senza muovere un muscolo, i pensieri che giravano in tondo a una velocità impressionante. Quando sua madre parlò non riuscì a capire cosa avesse detto. Le chiese di ripetere e concentrò tutte le sue energie per riuscire a penetrare il significato di quelle parole.
“La polizia li ha presi questa mattina”, stava dicendo Lucia. “Sono due ragazzini della tua età”. Fece una pausa. “Dicono che non sanno perché l’hanno fatto, hanno detto che si annoiavano”.
Dopo queste parole fu come se il tempo per Diego si fosse fermato. Ad un certo punto sua madre uscì di casa, forse per andare alla polizia a fare la denuncia. Diego non sentì il rumore della porta che si chiudeva e nemmeno quello della macchina sulla ghiaia del vialetto d’ingresso.
Rimase seduto ancora a lungo. Poi, quando era ormai quasi ora di pranzo, finalmente si alzò.
Alcune notti più tardi fece un sogno. C’era lui travestito da generale Custer che camminava per le strade del paese, la Smith&Wesson puntata dritto davanti a sé. Sparava ovunque, ai passanti, alle vetrine dei negozi, alle auto parcheggiate. Quando arrivava davanti al “Madamadoré” si accorgeva che quella era la meta del suo viaggio. Caricava la pistola e stava per sparare quando una grossa automobile rossa e sbuffante lo investiva. Nell’auto però non c’era nessuno. Di colpo Custer si ritrovava a terra con l’auto che lo sormontava come una bestia feroce. Curiosamente, però, non provava dolore né paura.
Poco dopo si ritrovava paralizzato e costretto perennemente a letto, giorno e notte, mentre fuori era estate e i suoi amici correvano per le strade e urlavano il suo nome da sotto le finestre. Lui non rispondeva. Restava lì in silenzio e aspettava qualcosa.
Poi quel qualcosa arrivava. Era sua madre e si prendeva cura di lui come di un bambino. Diego era felice di essere curato, sentiva di nuovo quella sensazione ipnotica e dolce che lo avvolgeva e aveva una voglia incontenibile di dormire, dormire per giorni interi, dormire e non svegliarsi mai più.
Stava quasi per addormentarsi quando notava qualcosa: nella cintura che stringeva i jeans Lucia era infilata la Smith&Wesson. Allora capiva improvvisamente che sua madre non stava più sorridendo, che in quel momento il volto di lei era freddo e inespressivo come quello di un manichino.
Era a questo punto che cominciava ad urlare.
photo by futurowoman on flickr.com
16 risposte a “Custer”
avvertenza: questo racconto è da considerarsi una bozza – ho finito di scriverlo questa mattina.
quindi mettete in conto una serie di revisioni (tipo lingua, stile, errori ortografici, di battitura, di sintassi ecc.)
ad ogni modo è la prima cosa decente che partorisco dai tempi di “pubertà” (e si parla di sei o sette mesi fa) quindi non vedevo l’ora di pubblicarlo.
nient’altro.
ora a voi.
domattina non posso votarti, vero?
no.
però puoi votare la lista civetta di un tale beppe grillo omonimo del più famoso beppe grillo (guarda le coincidenze!) e che recita: NO EURO RINASCITA DELLA MONTAGNA.
ben quotati anche ZARLENGA OMNIA e PEPPE 40 RINASCITA DEL SUD.
ci sono anche i giovani poeti d’azione magari mi danno qualche incentivo per continuare la carriera…
accidenti.
accidenti.
🙂
ti faccio sapere appena le idee al riguardo si chiariranno, il che mette in cantiere anche un “mai” come tempistica. e pensare che solo ora avevo ascoltato per bene “amen” e volevo commentare in qualche modo il tuo post pre-pre-precedente.
il “mai”, cara B., si mette sempre in conto – è sul “sempre” che cominciano i veri problemi.
però scrivi “accidenti”.
Johnny lassù voleva farmi presidente e tu scrivi “accidenti”.
quindi i miei ringraziamenti ai vostri elogi, indipendentemente dal fatto che i vostri FOSSERO o NON FOSSERO elogi, si fanno sempre più sperticati perchè pare che finalmente (grazie a dio finalmente!) siamo tutti quanti alle soglie di una nuova forma di comunicazione.
e questo con il ritorno del C. in parlamento si farà sempre più importante – male che vada per sfuggire ai servizi segreti, bene che vada per (ri)cercare l’uomo.
io invece sono pessimo, ci tengo a dirtelo, perchè con le poesie faccio davvero casino. se ti può consolare posso dirti che il leopardo con la testa da donna (o da uomo? o era un uomo o una donna con il corpo da leopardo?) me lo sono sognato tre o quattro volte e ogni volta che lo vedo provoca in me attrazione e terrore contemporaneamente – chissà poi perchè.
l’unico argomento che posso portare a mio discapito (riguardo a tutto, ve lo giuro solennemente) è che in questi giorni non so esattamente quello che faccio.
però se mai scoppiasse la guerra civile sappiate che non è colpa mia.
tra pochi giorni (ma mettiamo pure in cantiere il “mai”) arriverà anche un post post-elettorale – ma solo se ne avrò la forza.
ah, dimenticavo: “amen”. brava. mi piacerebbe sapere cosa ne pensi.
e quella faccina che ammicca era in realtà una parentesi, ma visto che è così carina nel suo ammiccare credo che rimarrà.
per “amen” lascerei parlare il link che ti ho mandato. anzi a questo punto sono io che chiedo a te cosa ne pensi di quella riflessione.
per il post post-elettorale lascia pure passare ancora qualche giorno, visto che il nuovo governo non si esimerà dallo stupirci con eccezionali trovate… ne sono sicura.
per “custer” direi che c’è qualche piccolo refuso in giro, ma bella la storia, bello l’ambiente, bella questa provincia che descrivi sempre così bene, bello il personaggio di Diego e quello della sua mamma (un appunto: gli indiani che tornano nelle riserve? ripensala…). insomma, su, “accidenti” diceva già tutto.
già gli indiani… 🙂 riguarderò. d’altra parte dicevo sopra che si tratta in effetti di una bozza, di refusi ce ne saranno parecchi. dovrò scriverlo e riscriverlo, questo è poco più che uno schizzo.
e sì, certo, “accidenti” diceva già tutto…
in realtà ho voluto pubblicarlo subito, anche in questo stato un po’ embrionale, perchè (ri)trovare questo stile e questa forma di narrazione per blocchi di senso (se ne parlava con giorgio a proposito del post su “amen”, credo) mi è costato parecchia fatica e infiniti cestinamenti.
sul pezzo di martina testa… che dire, è condivisibile in tutto e per tutto. mi verrebbe da chiederle se in questa situazione che delinea (e che tutti sappiamo essere la realtà) di un mercato opprimente e di una speranza residuale di un lavoro qualitativamente elevato possa davvero reggersi un equilibrio. visto che lei parla da minimum fax, sembrerebbe (almeno per il momento) di sì. però sembrerebbe anche una legge quasi matematica che con il crescere di una casa editrice (crescere di visibilità, tendenze, interessi, finanziamenti) le pressioni del mercato (ma direi più ancora dello “spettacolo” ) tendano a crescere destabilizzando l’equilibrio. l’appunto che le farei insomma è questo: quale soluzione intravede? qual’è la risposta a lungo termine? basarsi sull’impegno di gente intelligente e appassionata (come certamente lei è) purtroppo non è una risposta.
insomma: COSA POSSIAMO FARE PERCHE’ LE COSE CAMBINO?
chiaramente la domanda non ha a che vedere nello specifico con la letteratura, ma resta. mi viene da dire che il “blocco” del mercato odierno ha in realtà molte falle e molte feritoie che potrebbero essere penetrate (e qui il pezzo dei baustelle citato nell’articolo avrebbe qualcosa da insegnare) e che comunque, al di là di tutto, sarebbe nostra responsabilità trovare modi e mezzi per remare contro – insomma attivarci.
nello specifico del mercato del libro, la situazione è tragica e lo sappiamo tutti. ma a mio modo di vedere il problema può essere raggirato. come? con l’educazione. con i blog. con l’informazione. con i siti e le riviste che parlano di buona letteratura. si pubblicano tonnellate di merda e nella merda anche chi è bravo si perde – questo è certamente un fatto. dico che sarebbe nostro dovere fornire alla gente NON SOLO (e non necessariamente) i buoni libri, ma soprattutto GLI STRUMENTI per distinguere un libro buono dalla merda.
dopodichè se l’industria libraria ci tiene tanto a pubblicare e a mandare al macero ogni anno quintali e quintali di letteratura inutile faccia pure – a questo punto diventa un problema di rispetto per l’ambiente ma non degli editori e il discorso cambia radicalmente.
Ne è valsa la pena aspettare tutto questo tempo! Questo racconto ti è proprio riuscito bene, a prescindere dallo stato embrionale o meno, le tue descrizioni della provincia diventano ogni volta più accurate, è come se si percepisse e si vedesse quell’immobilismo che secondo me è il cuore di moltissimi paesini.
Ad ogni modo, grazie agli indiani e alle riserve puoi addirittura collegarti al post post-elettorale 🙂 Ogni riferimento a fatti e persone reali è OVVIAMENTE casuale!
grazie, valeria.
immagino che tu abbia colto la geografia della piccola borgomanero… comunque sì, la provincia è un tema che mi ossessiona (la provincia di casa nostra, sai di cosa parlo) soprattutto da quando mi sono stabilito in pianta stabile a torino e ho assunto quella distanza necessaria per evitare le crisi di panico tipo kurt cobain nei sobborghi di seattle…
per quanto riguarda il racconto in sè vedremo. come scrivevo sopra ho lavorato molto sullo stile, credo finalmente di essere riuscito a dire quello che mi sta più a cuore. speriamo continui così 🙂
riguardo alle persone e ai fatti OVVIAMENTE casuali: ti riferisci a quel manifesto ridicolo della lega con la faccia di un indiano e uno slogan tipo: “loro non sono riusciti ad impedire l’immigrazione clandestina”??
questa mandria di contadini beceri (votata anche dagli ex-comunisti, queste elezioni, per la gioia del proletariato e dei vari soli dell’avvenire), questa marmaglia di pazzi violenti a volte riesce veramente a farmi ridere. insomma, hanno la dote dell’umorismo (forse non troppo consapevole, in realtà) e questo va riconosciuto. santo dio, quando ho visto quel manifesto ho pensato a debord! sono eversivi oltre ogni dire…
il post post-elettorale arriverà non appena riuscirò a rendermi conto di cosa cazzo sta succedendo in questo paese – sempre che prima i nostri amici in verde non abbiano davvero imbracciato fucili e cannoni come promesso in campagna elettorale…
Provincia, provincia, e quel finale a mezz’aria. Un degno allievo di Carver. Degno, sul serio.
[P.S.: Borgomanero? Sul serio pensavi a Borgomanero mentre scrivevi? Non l’avrei mai, mai detto].
[P.P.S.: riguardo al post post-elettorale, sappiamo bene che la tentazione di continuare a scrivere è fortissima, e nemmeno io riesco a sottrarmici, nel mio blog -notavo poco fa che i post dedicati alla politica sono aumentati in maniera esponenziale, ultimamente.
Ma a volte viene davvero il dubbio che le parole si sprechino, si consumino invano insieme ai tasti della tastiere. Cambierà mai qualcosa in un periodo di tempo utile perchè la nostra generazione possa apprezzare la svolta? La soluzione, ne parlammo tempo fa, mio caro, putroppo non è da cercare in alto.
In basso la gente non ha un’idea di stato e pensa solo ad accaparrarsi il posto statale per poi timbrare il cartellino e scappare al bar tutte le mattine. In basso, dal basso, le fondamenta della nostra amata Italia si reggono su una macchina enorme ed elefantiaca fatta di mille piccoli specchi che riflettono quello che c’è più in alto. Siamo noi ad essere fatti così. Siamo noi ad averci il tumore, che ci mangia e ci fa marcire giorno dopo giorno. Siamo noi che ci ostiniamo a non capire il nesso tra noi e la comunità, tra le tasse e gli ospedali, le scuole e i tribunali, tra il lavoro svolto tutti i giorni e i risultati che non vengono subito, ma magari tra diec’anni. Siamo noi a coltivare comunque e nonostante tutto il nostro squallido orticello, senza preoccuparci di nient’altro -eccezion fatta, naturalmente, per le rate del nostro nuovo televisore 120 pollici .
E una parte di noi -me compresa- sta a scrivere quintali di parole sui blog, e si convince a poco a poco che tutto sommato le persone che gli girano intorno sono intelligenti, sono capaci, hanno qualcosa da dire e da dare.
Ma a volte, nei momenti di lucidità, mi pare di rendermi conto, con rammarico, che anche la nostra non è altro che una bella gabbia dorata].
ciao coco, grazie mille del commento.
voglio risponderti e per farlo divido in punti perchè quello che dici merita attenzione.
1. borgomanero. sì, pensavo proprio a borgomanero. voglio dire, l’elite della comunità che sta in vacanza a sharm, questo senso di immobilità, di cose pulite e precise e ordinate che nascondono quintali di malessere… ma forse il tuo appunto era ironico e questa spiegazione mi sta facendo sembrare un idiota.
2. non sono d’accordo con quello che dici – o meglio certo che sono d’accordo, ma vorrei spingermi un po’ più in là della gobettiana considerazione del servilismo italiano, peraltro fondamentale.
che ci piaccia o no le cose stanno cambiando – e forse cambiano in peggio. c’è di nuovo berlusconi, ma questo da certi punti di vista è il minimo. c’è la crisi economica statunitense che nel giro di qualche mese o anno ci investirà come un’onda. soprattutto c’è una democrazia ridotta allo stremo delle forze, corrosa dal movimento eversivo di una destra per un milione di motivi antidemocratica. c’è un sistema mediatico che ha appena fatto vincere il ballottaggio di roma ad alemanno grazie ad un bombardamento televisivo sulle malefatte dei rumeni. la situazione sta diventando dura, cara coco, durissima. l’impegno, a mio modo di vedere, diventa ogni giorno più essenziale. c’è chi scende in piazza, chi fa le associazioni, chi sta nei partiti, persino chi spacca le vetrine. io scrivo e dico quello che penso e anche questo secondo me è impegno. passiamo al punto 3.
3. ti cito i baustelle, tanto per non essere ossessivo. in “baudelaire” dicono: “è necessario vivere, bisogna scrivere”. aggiungo io: oggi più che mai. scrivi. sul tuo blog, sulle riviste indipendenti, sui siti. se riesci a scrivere sulla stampa o a parlare in rai dicendo LA VERITA’ (santo dio, solo la verità!) fallo. lo fai tu, lo faccio io, lo fanno in molti. chi scrive, come chi organizza i movimenti di piazza, ha IL PRECISO DOVERE di continuare a farlo, e a voce sempre più alta.
4. e ora un’anticipazione. tra qualche giorno esco qui sul blog e probabilmente anche altrove con un pezzo su grillo (l’ho finito, devo solo correggerlo). le cose stanno cambiando, coco, almeno io credo che stiano cambiando – e forse, ripeto, in peggio. in piazza san carlo venerdì c’erano 100.000 persone (e questa è una cosa positiva) molte incazzate al punto da farmi paura (e questa è una cosa negativa) e a spingermi a scrivere un pezzo su tutta la faccenda (e questo è di nuovo positivo). forse mi sbaglio, sarà la storia a giudicare, ma questa è la mia impressione – senza allarmismi nè catastrofismi – solo un’impressione. ne riparleremo.
il fatto che il 25 aprile ci fossero 100.000 persone davanti a grillo invece che nelle altre piazze dove si ricordava il VERO 25 aprile fa spavento. il fatto che alemanno abbia vinto a roma è inconcepibile. il fatto che berlusconi sia di nuovo al governo è agghiacciante. il giorno che in questo paese torneranno davvero i fascisti, ce lo saremo meritati. aspetto il tuo post su grillo… e perdonami in anticipo, ma sarò mooolto polemica
premetto che ho firmato entrambi gli appelli di grillo, sia nel settembre 2007 che venerdì scorso. detto questo anche io sono molto critico verso certi aspetti di questo movimento (molto, molto critico) e nemmeno io ho apprezzato la decisione di tenere il secondo v-day proprio il giorno della liberazione – anche se di questo nel mio pezzo non ne parlo. e sulle polemiche: non ti perdono per niente, ti apprezzo! VOGLIO gente polemica. senza polemica non andiamo da nessuna parte. aspetto con ansia tuoi commenti a riguardo…
ultima cosa, rapidissima, su alemanno. non so se ve ne siete accorti, ma tra il primo turno delle comunali e i ballottaggi, sulla scia di quello stupro di roma (rumeno contro ragazza anche lei immigrata, se non sbaglio) nei telegiornali è cominciato un vero e proprio bombardamento sui crimini commessi da rumeni. mi sono appuntato da qualche parte il numero esatto in cui, giorno per giorno, i telegiornali ne parlavano. lunedì, per fare un esempio, su sei notizie 3 (il 50 per cento!) parlavano di omicidi, stupri o aggressioni subite da italiani per danno di rumeni. ragazzi, questo non è un caso: è il primo provvediento del governo berlusconi (anche se informale, dato che il governo non c’è ancora ufficialmente) per far vincere un suo uomo a roma e strappare al pd l’ultimo baluardo. pensateci, non poteva che essere tutto calcolato. tant’è che per duplice ammissione di destra e sinistra, rutelli ha perso proprio perchè sul tema della sicurezza gli indecisi hanno deciso di votare gli ex fascisti.
questo non è democratico – è manipolazione dell’opinione pubblica per mezzo dello strapotere mediatico. e a me fa sempre più paura ogni giorno che passa.
a proposito: eri uno dei nostri due nomi proposti, ma ivano ci ha anticipato.
maledetto ivano!
g.
ivano bariani, l’e-mail più veloce del west.
scherzi a parte vi rignrazio, date un bacino a eleanore da parte mia.