Credo che lo scopo di ogni scrittore dovrebbe essere quello di produrre una letteratura che neghi sè stessa in quanto tale. Che è come dire una letteratura priva di concetti, o anche una letteratura dove i filtri sono fluidi e armonici, o meglio ancora una letteratura che smetta di essere una costruzione che protegge lo scrittore dalle sue paure (soprattutto dalla sua paura di non sapersi relazionare con i propri simili) per trasformarsi in una ponte diretto tra l’intimo dello scrittore e ciò che lo scrittore produce.
Per fare questo, mi sembra, sono necessarie tre condizioni: aver guardato nell’abisso più profondo della propria anima (che non è l’orrore ma qualcosa che si nasconde dietro l’orrore e che generalmente è la vergogna); aver operato un atto creativo capace di sublimare quell’abisso (o quella pulsione) in qualcosa di ordinato e dunque portatore di senso; aver assunto una grossa consapevolezza del proprio corpo (o del fatto che sono le dita, e non la mente, che battono sulla tastiera).
Senza queste tre condizioni essenziali ho idea che si continui a scrivere non di sé stessi ma dell’immagine che si vorrebbe trasmettere all’esterno, e che quindi la comunicazione sia fondamentalmente poco sincera e forse anche un po’ inessenziale. Può darsi anche (ma forse qui esagero) che sia proprio questa la linea di confine che separa le infite gradazioni della cattiva letteratura alle altrettanto infinite gradazioni della buona letteratura.
E questo è solo un pensiero estemporaneo per provare che boring machines non è morto, solo un po’ assopito. Le altre novità di rilievo sono che ho trovato lavoro in una libreria e che da lunedì prossimo pubblicherò su questo blog un racconto a settimana per, diciamo, un mese e mezzo, giusto così, per non far affondare questa barchetta a cui tutto sommato voglio ancora abbastanza bene.
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