[Novalis, Marsilio, 2008, pp. 232, €15.00]
0. Introduzione
Ho letto Novalis due volte, praticamente una di fila all’altra. Prima di questa recensione ne avevo scritta una più lunga: ma l’ho trovata troppo frettolosa, superficiale, e anche un po’ disonesta: quindi l’ho eliminata. Tutto ciò per dire che di romanzi come Novalis è difficile scrivere.
Un romanzo può essere affrontato da centinaia di punti di vista (su Crash di Ballard, per esempio, ho riempito dieci pagine solo per descrivere lo stile; poi ho capito che un lavoro di questo tipo è inutile, oltre che incredibilmente faticoso.)
Per chiarezza espositiva dirò questo: ho intenzione di trattare un’unico aspetto di Novalis, e da quest’unico aspetto mutuare alcune riflessioni collaterali che descrivano i punti forti e i punti deboli di questo romanzo.
La proposizione che intendo discutere può sembrare paradossale, eppure non lo è. (Potrebbe, però, essere del tutto sbagliata.)
Ed è la seguente: Novalis è un romanzo religioso.
1. Il cielo
Si potrebbe partire dal paragone con Palanhiuk, da qualche osservazione sul malessere contemporaneo o, a rigor di logica, dalla splendida copertina di Travis Smith.
Purtroppo però questa volta mi toccherà essere banale: partirò dall’inizio.
Il romanzo si apre con un Prologo in cielo. Cosa contenga questo prologo è di granlunga meno interessante della sua mera esistenza (il contenitore, in questo caso, conta più del contenuto). La prima impressione che ricavo dalla lettura del libro è dunque piuttosto singolare: esiste un cielo, qualunque cosa esso sia.
(E non è una banalità, per quanto possa sembrare tale: sulla dimensione esclusivamente terrena della letteratura contemporanea ci sarebbe molto da dire.)
Ma che cos’è questo cielo? Cosa rappresenta? Qual’è la sua funzione narrativa?
In Novalis il cielo è assenza. Qualcosa che forse un tempo è esistito – certamente adesso non c’è più. Ma è anche ricerca o speranza o tensione: qualcosa a cui si anela, verso il quale si tende.
I paragoni che mi vengono all’istante sono due: la città di Marozia in Calvino (la città delle rondini che sta per sprigionarsi dalla città dei topi); e la filosofia heideggeriana (l’Essere che si ritira di fronte alla reficazione del mondo).
C’è una luce verso la quale dirigersi, una prospettiva chiaramente teleologica (cosa sia questa luce lo vedremo più avanti).
E c’è anche la condizione presente (la terra), il mondo ridotto ad oggetto, lo spirito che si prosciuga della sua potenza vitale.
2. Fame
Dove c’è assenza, si sa, c’è fame: di spiritualità, di emozioni forti, di contatto empatico (non importa quale sia il mezzo per raggiungerlo) con l’Altro.
I personaggi di Novalis sono tutti affamati di spirito. Cercano qualcosa che non sanno definire (un brivido? un senso?) e lo cercano con mezzi caotici e imperfetti, con gli strumenti mutilati della loro banale, perduta umanità.
C’è Alex, che quel qualcosa lo trovava nella musica. Ma ora che la musica è finita che ne sarà di Alex? Niente. Vaga come un’anima persa per la sua personale terra desolata, non può pensare ad altro che alla sua fame, alla sua condizione di corpo tra i corpi (ma non può essere tutto qui, si ripete tra le righe, come un’ossessione). C’è il padre di Alex che quel qualcosa l’ha trovato nel narcisismo estremo dell’ipocontdria (che aspetta l’infarto come Lenin aspettava la rivoluzione: con fiducia e dedizione da martire). E c’è Sara, che invece immola il proprio spirito sull’altare della perversione (per cui la ricerca è discesa negli inferi, autodistruzione, vendetta contro il proprio Sé).
E poi c’è, naturalmente, il Gruppo Novalis.
3. Il Messia
Perché quattro sconosciuti che si sparano in bocca di fronte ad un pubblico di disperati possono essere paragonati a Cristo?
Perché come lui sono portatori di un Verbo: perché offrono la redezione: perché recitano la veste istituzionale della purificazione, la Messa, la Comunione, la catarsi.
4. Luce
Il Verbo proposto dal Gruppo Novalis è il più semplice possibile, il più adatto ai tempi: é il Nulla. Di fronte ad un mondo di assenze ecco a voi l’Assenza, la morte, la violenza senza uno scopo (o anche il vuoto di senso, l’abisso).
Qui il paragone è per me ancora più limpido: il racconto A celan, well-lighted place di Hemingway (“niente nostro che sei nel niente” e così via).
Se la parola è il Nulla, l’ostia della Comunione è il dolore (lui si spara in bocca, sta peggio di te), la dipendenza (la morte chiama morte), lo stesso tipo di legame empatico che lega i tossicomani gli uni agli altri (moriremo tutti dello stesso male).
Il sangue di Cristo qui è il sangue di uno sconosciuto mascherato – ma pur sempre di sangue si tratta.
Nella luce nera del Gruppo ci si perde, ci si disintegra, si rinasce irrimediabilmente diversi.
5. Preghiere
Nel corso del romanzo Alex si ritrova spesso a pregare. Recita il padre nostro a mozziconi, a brandelli – l’unico tipo di preghiera concessa in un mondo di residui. Perché lo fa? Mentre recita non ne ha coscienza alcuna, soltanto il desiderio spasmodico che qualcosa serva, che ci sia dell’altro oltre alle cose, uno spirito, un dio, di qualunque cosa si tratti.
Anche chi non prega utilizzando le formule convenzionali della religione cattolica sta recitando il suo mantra, continuamente, durante il corso di tutto il romanzo.
Ci sono litanie che vengono ripetute ossessivamente: la musica, la pornografia; l’infarto; l’isolamento; la perdita di sé tra le cose, il panteismo della periferia devastata.
C’è affetto nei cavalcavia distrutti, nei capannoni industriali, come dire: smettete di essere quello che siete (le macerie di un’industrializzazione che non esiste più), diventate altro, donatemi il Senso.
6. Colpa
E c’è la colpa, l’invenzione suprema della nostra cultura cristiana. C’è la purezza che un tempo risedeva in cielo, nell’Eden, e che ora è stata irrimediabilmente sporcata dal peccato originale. Portiamo in noi i semi del peccato da millenni a questa parte, solo il giorno del Giudizio separerà i buoni dai cattivi e ci concederà la vera vita, la riunificazione con noi stessi
Ma cos’è in Novalis questo peccato? Non è la morte e nemmeno l’abisso: è la merce; sono le cose; gli oggetti che hanno riempito le nostre vite, il degrado spirituale della nostra civiltà giunta allo stremo, la plastica e le macerie che invadono le nostre anime e dalle quali sembra non esserci via di fuga.
Ogni personaggio in Novalis vive con colpa questo fattore sistemico, individualmente, come una ferita impossibile da rimarginare. Tutti per qualche motivo si sentono sbagliati: tutti vorrebbero qualcosa che non hanno e tutti lo cercano al di fuori di sé, in una comunicazione con l’Altro che è diventata impossibile perché è errata in partenza – non è la musica il problema, non è il fatto che Alex non suoni più: è quel qualcosa che ha perduto in un passato ancestrale che non ricorda (la perfezione? la purezza?) e che attraverso la musica gli sembrava di raggiungere.
Per questo (e stiamo ancora parlando di colpa) finita la musica non resta altro che il Niente.
NOTE
Nota sulla lingua
Ogni singola parola, in Novalis, veicola questo senso di perdita, di caduta, di abbandono e insieme di ricerca. Le sillabe bruciano perché sono attraversate dal dolore. In questo senso Giorgio Fontana non assomiglia per niente a Palahniuk. Perché entrambi sono inguaribili romantici, ma Palanhiuk vive in una dimensione del tutto terrena mentre Fontana no. Perché quello di Palanhiuk è un dissenso nei confronti del sistema (il suo romanticismo è ribellione antimodernista) mentre quello di Fontana è un dolore intimo, una tensione kierkegaardiana del singolo attanagliato dall’angoscia che cerca un dio introvabile. Per questo motivo la lingua di Palanhiuk è tagliente, sottile, gelida: perché deve funzionare come arma per aggredire un mondo. E sempre per questo quella di Fontana è densa, vibrante, ritmata: perché recita una preghiera intima, è una ricerca, un dolore, la volontà di una conversione.
In questo senso Fontana assomiglia molto di più a Mancassola o a Saviano che a Palanhiuk. Oppure davvero a Novalis (il poeta) o all’infinito di Leopardi (proprio quell’infinito è la meta della ricerca di Alex, solo che sono cambiati i tempi: non basta più una siepe e il ricordo di un infanzia, oggi siamo agli estremi rimedi).
Nota sul concetto di colpa
Non sono cristiano (non ho ricevuto un’educazione cristiana) eppure faccio parte di questa nostra cultura incentrata sulla dualità, sulla colpa e sulla salvezza: questo, sotto ogni punto di vista, è un guaio.
Il sentimento che sta alla base di Novalis lo conosco bene (è stato mio per molto tempo) e forse anche per questo motivo posso dire che sì, Novalis è un bel romanzo: perché è un romanzo ricco e scritto in maniera straordinaria; un romanzo potente; un romanzo per certi versi straziante.
Eppure, nonostante tutto questo, non posso far altro che considerare erroneo il punto da cui la riflessione in esso contenuta parte: il problema affrontato, insomma, mi appare come un falso problema.
Non credo nella visione manichea che oppone il bene al male (e per traslato simbolico il cielo alla terra), la purezza al peccato, la perdizione alla salvezza: non credo alle lotte tra angeli e demoni, né nell’empireo né dentro l’anima umana.
Non credo negli assoluti romantici e penso che la visione mitica della colpa (Pavese su questo ha scritto cose straordinarie, però poi si è avvelenato a quarant’anni perché convinto di essere sbagliato; più o meno il ragionamento di un’adolescente anoressica) vada inteso grossomodo come un metodo di controllo sociale (se sbagli dio ti punisce) e poco più.
Credo che la religione cristiana sia la più grande nevrosi collettiva della storia occidentale: la più grande impalcatura psicologica mai ideata dall’uomo per tenere a freno i propri istinti e per cercare di conferire alla realtà un ordine che semplicemente non esiste.
Alex rimpiange la perdita di qualcosa che non è mai esistito, cerca quella stessa cosa che non potrà mai ottenere se non fuggevolmente, perché fuggevole è la natura delle nostre emozioni. Cerca al di fuori di sé qualcosa che esiste solo in lui; sublima a livello simbolico (la purezza, la salvezza, il cielo eccetera) in sentimento interno di perfezione e unità che ha smesso di esistere nel momento stesso in cui è venuto alla luce.
(La cosa divertente, paradossale di tutta questa storia è come le religioni monoteiste siano riuscite a costruire fortezze e muraglie invalicabili sul più umano dei sentimenti: hanno cercato dio, la perfezione e l’unità senza capire che quel sentimento d’unità era ciò che provavano all’interno dell’utero materno – che non aveva nulla a che fare con dio ma probabilmente con un rapporto irrisolto con la propria madre. Da qui tra l’altro la misoginia della chiesa, il suo tentativo di arginare ogni aspetto istintuale nella femmina – perché il suo corpo come la terra procrea e ciò è inconcepibile per chi, come le gerarchie vaticane, da duemila anni cerca di tenere sotto controllo ogni pulsione istintuale. Faccio notare solo en passant che anche in Novalis la ricerca della donna – Sara – è sacrificio, mortificazione del proprio corpo attraverso una sessualità autopunitiva.)
(Attenzione, però: con questo non voglio dire che Novalis contenga in sé tracce di misoginia né tantomeno che sia spinto nelle sue motivazioni più profonde da un rapporto irrisolto con la figura materna – se dicessi una cosa del genere sarei pazzo. Volgio dire che Novalis è un romanzo profondamente contemporaneo e profondamente occidentale, che risponde in maniera sensata e potente ad una chiara esigenza del presente (l’assenza di spiritualità in un mondo che si è fatto oggetto, meta, merce di scambio). E che per fare ciò pone le sue radici – e questo è a mio parere uno dei lati più interessanti del suo discorso – in una cultura millenaria, che non si limita alla cronaca dell’oggi ma ripropone in chiave moderna il grande tema cristiano del male e della salvezza e come tale racchiude in sé tutta la lotta titanica dell’uomo che lotta con le forze del destino (l’uomo che lotta contro il dolore che lo attanaglia da sempre come una carie). Ma come tale (proprio perchè tale) credo anche che l’impasse concettuale con cui si conclude (il dialogo tra Alex e Maschera Nera non è un vero dialogo, non affronta e non supera il problema, al massimo lo iberna) dica qualcosa, forse molto, sulle difficoltà dell’uomo occidentale contemporaneo di liberarsi dalla propria nevrosi (il senso di colpa e la punizione conseguente). In questo senso è un romanzo figlio di quella tradizione filosofica che poi sarebbe sfociata nel cristianesimo (parlo di Platone e seguaci) che da più di duemila anni si scontra sempre con la stessa problematica, conferendo a sè stessa (questo è indubbio) la dignità del dolore e della lotta, ma anche autocondannandosi alla sconfitta (chi potrebbe dire che Alex ha vinto la sua battaglia a romanzo concluso?) proprio perché i termini del problema, malposti come sono in tutti noi da una tradizione culturale millenaria, non possono che condurre ad una risposta negativa, vagamente disperante.)
Credo insomma che il senso di perdita sia un residuo atavico dell’esistenza prenatale, importantissimo in questo senso ma che forse andrebbe preso per quello che è e non trasformato, proprio come ha fatto il cristianesimo, in un mostro. Credo che la colpa non esista perché non esistono modelli fissi che non siano culturali (e di conseguenza modificabili nel corso del tempo), che non concernano il nostro vissuto personale, il nostro modo di rapportarci al mondo esterno e agli altri. Credo che non esista possibilità di sporcarsi perché non c’è mai stata una purezza (quando? durante l’infanzia? da bambini non eravamo capaci di provare il male, di fare il male?), che la salvezza sia un’illusione per chi non accetta che nella vita ci sono cose belle e brutte, che il senso sfugge sempre, che un ordine (una direzione) è impossibile da conferire al corso degli eventi.
Proprio Giorgio Fontana aveva scritto una cosa, una volta, che ritengo di grandissima importanza (anche se mi viene da chiedermi, allora, in che direzione Alex corra con tanta foga): che non costruiamo in verticale, costruiamo e basta. Esatto: questo è il mio punto di vista. Come nei koan orientali esiste il problema ma non la soluzione – ciò che conta è la ricerca, non la meta ma il viaggio.
5 risposte a “Su “Novalis” di Giorgio Fontana”
scusa l’intrusione. correggi palahniuk. ogni tanto l’hai scritto giusto e ogni tanto sbagliato.
come già scrissi sul mio sito e sul blog del libro: la gemma più brillante di tutte.
grazie.
g.
[…] ai 19 anni, come quello di Brizzi; per una recensione esaustiva e intelligente, cliccare qui. David Lodge, Il professore va al congresso: lettura godibile, avvincente, con tratti di […]
Ogni volta che ti linko (brrrrr…che brutto verbo…) viene fuori un pezzo di quello che ho scritto nel mio post…siccome dal pezzetto di frase che compare qui potrebbe sembrare che stia paragonando Fontana a Brizzi, ci terrei a specificare, per scrupolo, che NON è così [non vorrei che Fontana, passando di qua, si prendesse un coccolone]. Anzi, il testo dice proprio il contrario.
Tanti cari saluti, nè.
[…] per finire, la gemma più brillante di tutte (non me ne vogliano gli altri): il pezzo di Gianluca Didino, di cui vi invito a leggere il blog. Che posso dire: è un saggio così esatto e […]