Un Jour a Marseille di Mauro Santini (di Emanuela Russo)
Santini, dopo aver vinto nel 2002 lo Spazio Italia del Torino Film Festival, presenta quest’anno nella sezione Detours, Un jour a Marseille.
Il lungometraggio è la storia di un viaggio intrapreso dal regista in tre luoghi della città, che incomincia una notte e termina la sera successiva. Entriamo subito nella notte di Marsiglia, con la macchina da presa che filma immobile dal finestrino di una macchina che percorre le vie della città e arriviamo a Boulevard d’Athénes. E’ passata la mezzanotte e il regista, dalle persiane di un appartamento che da sulla strada, riprende e spia ciò che avviene sul marciapiede di fronte a lui. C’è un bar che sta per chiudere, passano persone, pochi metri più in la del bar c’è un barbone coricato che fuma. Passa la solitudine in quel tratto di strada, sagome di persone dirette non si sa dove che lentamente attraversano lo spazio, ma passa anche la solidarietà quando una signora del bar porta una bevanda al barbone. E’ una notte che si sta per concludere come tante altre notti, nei gesti semplici di chi vaga per la città senza una meta (passa un altro barbone che manda via il primo da dov’era coricato), dei gestori del bar che tolgono tavolini e sedie, chiudono la saracinesca del locale.
Ci si sveglia il mattino dopo guardando sempre quel tratto di strada, il bar ha riaperto, persone di tutte le nazionalità passano distrattamente, al tavolino del caffè una coppia di turisti guarda una cartina e si scambia carezze d’affetto, un uomo solo fuma e sorseggia un drink dando l’impressione d’essere un frequentatore abituale del caffè.
A questo punto la macchina da presa si sposta e cambia luogo d’osservazione. Esce dall’appartamento, scende le scale e ci ritroviamo alla Grande Joliette, in riva al mare, nel pomeriggio soleggiato. Qui la macchina ferma in due punti d’osservazione riprende le persone che passano, i bambini che giocano, un venditore di bevande per poi concentrarsi sempre immobile su un altro venditore arabo che si sposta con il suo carrello di bevande e ci regala senza saperlo il suo momento di preghiera con i suoi riti e gesti lenti. Segue una panoramica ampia e vediamo un circo che chiude questa seconda parte di narrazione.
Arriviamo alla Corniche, macchina da presa fissa a riprendere la vita dentro le case sulla roccia e sul mare. Una famiglia sospesa nel tardo pomeriggio riunita attorno ad un tavolo, due bambine che saltano e giocano, una signora che lavora a maglia. La curiosità di una delle due bambine che va sul terrazzo, scende sulla roccia in riva al mare e immerge i piedi dentro l’acqua, attratta da qualcosa. Sulla stessa terrazza una signore, forse il padre che fuma disilluso con lo sguardo perso nel vuoto.
Tutto questo è Un jour a Marseille, un pianosequenza infinito del mondo, un video in gran parte compiuto nell’atto della ripresa con interventi minimi di montaggio, senza interventi sul tempo, sull’immagine, sui suoni. Un racconto di piccole storie osservate a distanza con accoglienza e comprensione, quasi con timidezza. Non ci sono attori, le immagini sono rubate dalla realtà e la narrazione rimane aperta ed errante, esposta alla casualità degli eventi e al continuo flusso della vita che ciclicamente continua. Le ultime immagini del film sono simboliche e aperte: vediamo la sagoma del signore che fuma riflessa nell’acqua e una delle due bambine che scende la scaletta verso il mare. Dalle parole del regista stesso, l’acqua è simbolo della ciclicità della vita, del ritorno nel grembo materno e la bambina è l’infanzia, una storia che continua a muoversi oltre la telecamera, un modo per parlare di se attraverso gli altri.
Arriva al Torino Film Festival il secondo capitolo della saga “Masters of horror”, il progetto statunitense che raccoglie i migliori registi del genere nella realizzazione di una serie di episodi (uno per regista) della durata esatta di 60 minuti.
E basta la voce che in sala, a presentare i film, ci saranno anche Dario Argento e John Landis a creare per le vie della città un’aspettativa frenetica, fatta di mormorii e pettegolezzi, che sa di grande evento.
Ad attendere la proiezione troviamo una coda sterminata di fan e curiosi, infreddoliti ma straordinariamente determinati. Non entrano in molti, ma chi ce la fa non resterà deluso.
Perchè? Innanzitutto per lo spettacolo che la coppia comica-orrorifica Argento-Landis regala alla platea: battute, chiacchiericci, provocazioni, divagazioni e voli pindarici che con il cinema non hanno quasi nulla a che vedere, ma che piacciono un sacco.
E poi per la qualità delle opere. “Pelts”, di Dario Argento (che proprio a Torino è impegnato nella realizzazione del suo ultimo film) è un horror senza tensione ma truculento all’inverosimile. E’ una storia surreale di follie feticistico-narcisiste, al centro della quale si trova una pelliccia di procione dotata di poteri paranormali: chiunque ne venga a contatto uccide, e poi si uccide. Niente di nuovo, ma tutto ben fatto: dalla solita sottoumanità di poveracci pervertiti che ormai ha fatto scuola (penso a Soavi, grande discepolo del maestro Argento) alla classica serie di virulenze (pelli strappate, occhi e labbra cucite, corpi maciullati, ventri squarciati) che al pubblico in sala (sarà Torino?) piacciono oltre ogni dire: ogni schizzo di sangue, ogni osso fratturato, ogni arto amputato è salutato da una serie scrosciante di applausi.
“Family” di Landis è invece più complesso. E’ un horror comico, innanzitutto, un genere di confine e poco sperimentato, che ha ancora molto da dire. Racconta la storia di un vecchio scapolo dalla perfetta educazione angolosassone, che decide di costruirsi una famiglia uccidendo e disseccando le ossa delle vittime: una famiglia fatta di uno scheletro-bambina, di uno scheletro-mamma, e di due scheletro-nonni. Lo sfondo è quello della perfetta cittadina nordamericana, viali alberati, casette bianche, belle auto, una sorta di primavera perenne dove tutti sorridono e sono gentili gli uni con gli altri. Cosa vuole dire Landis con questo film? Essenzialmente due cose. Primo (e più semplice) che anche il volto pulito dell’America nasconde una perversione inalienabile dal contesto, una violenza gentile ma feroce, una follia angosciante proprio perchè metodica, lontana dalle immagini di bestialità che il sintagma “morte violenta” suggerisce. In secondo luogo, poi, si snoda una riflessione sottile e irrimediabilmente pessimista sulla famiglia borghese: luogo pulito perchè fatto di scheletri scarnificati, dove la perfezione formale arriva a coincidere con la totale dissoluzione dell’individuo. Ed è così che questo film, inaspettatamente, crea un’angoscia e una tensione striscianti, non lascia indifferenti nonostante la comicità manifesta.
ELIORAMA di Maicol Casale e Alberto Momo (Emanuela Russo)
Nella sezione Doc 2006 in concorso troviamo il documentario di due giovani registi torinesi, il secondo dei quali già noto al Festival per aver presentato l’anno scorso “Fiaba nera”.
Anche quest’anno il tema della fiaba è centrale in “Eliorama”, viaggio intimo ed estetico a scoprire le architetture di Elio Luzi, il suo pensiero e forse anche una Torino diversa.
“Viaggiatori stanchi di città infallibili e della loro bellezza assestata, avventuratevi una sera nei viali dritti e inquietanti di Torino, città di pianura intessuta dall’infinito. Architetture inaudite vi attendono, imboscate.” Comincia così la fiaba di Eliorama che ci porta a visitare luoghi fantasmagorici che ricordano il mondo dell’infanzia, architetture avventurose e fantastiche e un pensiero, quello di Elio Luzi, ricco di vitalità e filosofia.
Si parte dalla bellissima casa di P.za Crimea, nella zona collinare di Torino, un’architettura irregolare e fatta di curve, priva di angoli e spigoli, nella quale nessun appartamento è uguale all’altro, per poi visitare altri edifici disseminati qua è la nella città. Luzi crea le sue opere in antitesi alla razionalità della maggioranza degli edifici costruiti nella città. Cerca di sfruttare l’irregolarità e l’imperfezione del terreno sul quale deve dar vita ad un progetto, con la convinzione che ciò che non si controlla, che non è razionale, sia la l’essenza della vita, la condizione per ogni forma di creatività.
L’imperfezione è dell’anima e l’architettura rispecchia questo stato ontologico dell’uomo, dando la possibilità a chi abiterà quello spazio di vivere in libertà e magari migliorare la propria qualità di vita.
Eliorama è la prima parte di un progetto ancora da ampliare, alterna momenti di fiction (con i quali si apre e si chiude il lavoro) al documentario vero e proprio, fatto di luoghi della città e riflessioni, ricordi. La macchina da presa si muove lenta e ci introduce alla scoperta di questi luoghi descritti ma anche vivi e abitati, in una città che regala sorprese e angoli in cui poter ancora viaggiare con la fantasia.
Arrivano sul grande schermo le inchieste generazionali del trio Coppola-Giommi-Piccinini, collaudata squadra televisiva portata al successo, qualche anno fa, dal cult di Mtv “Avere vent’anni”, prodotto intelligente, di alta qualità formale e dai contenuti più che interessanti: una serie di interviste informali a giovani di età compresa tra i venti e i trent’anni, tra prcariato e lifestyle, tra denuncia sociale e spaccato di vita quotidiana.
A Torino portano “Politica Zero”, film-documentario (compare nella rassegna “Concorso Doc”) dal titolo potente, sui rapporti tra giovani e politica.
Il film, due ore scarse ricavate da ottanta ore di filmato, si presenta come una puntata di “Avere vent’anni” allungata, dal tema più specifico, e, naturalmente, dalla natura politica più marcata. Il progetto consiste fondamentalmente nel seguire gli ultimi mesi di campagna elettorale dei quattro più giovani candidati (poi tutti eletti) alle politiche 2006: Giorgia Meloni (An), Arturo Scotto (Ds), Mara Carfagna (Fi) e Francesco Caruso (Prc).
Passando dalla Torino dei neofascisti per arrivare alla Napoli dei “berluschini” e del movimento antagonista, muovendosi tra personaggi ambigui, tra opportunisti e poveracci assuefatti al populismo mediatico di marca berlusconiana, il documentario riesce a dare uno spaccato soddisfacente dell’atteggiamento dei giovani nei riguardi delle istituzioni politiche. Ciò che ne emerge è una confusione vagamente rassegnata (e vagamante disperata) fatta di compromessi e promesse impossibili: veramente un grado zero della politica, un vuoto totale di riferimenti istituzionali. (E per questo basterebbero i brani realtivi alla Carfagna: subrette ascesa agli olimpi della politica che vede in Forza Italia qualcosa come l’incarnazione dei principi di libertà (!), trasparenza (!!) e addirittura legalità (!!!)).
Se si aggiunge a tutto questo una resa formale veramente qualitativa (un digitale riversato in 35mm dai toni cupi, plumbei, più da noir che da cinema-verità) si potrebbe pensare che il risultato sia ineccepibile.
Eppure, anche se il trio riesce nel suo intento, confezionando un lavoro certamente valido sia da un punto di vista artistico che da un punto di vista sociale-politico, qualcosa manca. Manca forse un discorso forte di fondo, un occhio veramente critico su un tema spinoso come quello dei rapporti tra giovani e politica, che non si limiti alla semplice constatazione che, appunto, politica zero.
La domanda che mi sentirei di fare a Coppola e compagni, ora come ora, è questa: davvero il rapporto giovani/politica può essere appiattito al rapporto giovani/partito? Non c’è in questa scelta aprioristica un che di inquietante, che finisce con l’identificare la politica italiana con una partitocrazia che sta agonizzando da quindici anni? Se la risposta dei giovani alla domanda politica è zero, non è forse vero che il problema sta nella lenta morte che la politica istituzionale/partitica sta consumando in questo paese?
Esiste in Italia tutta una fitta rete politica slegata dal contesto istituzionale, che va dall’asociazionismo ai movimenti, dall’antagonismo alle politiche per il territorio, in cui i giovani sono sempre più attivamente impegnati.
Non era forse il caso, a questo punto, di rivolgere uno sguardo a queste realtà che, nel bene e nel male, stanno davvero modificando il panorama politico del nostro paese, stanno davvero cominciando ad influire sulla vita dei cittadini? Forse la risposta sarebbe stata diversa.
Creatura di Tonino de Bernardi, autore di cinema underground dal 1967. Oggi preferisce chiamare il suo cinema “sperimentale”, non ama definirsi e dice che la condizione dell’essere sotto terra gli appartiene ma che poi esce anche in superficie.
Accoltellati è un film di visioni, musica e teatro che si susseguono in una narrazione mista e frammentata, irregolare, una comunicazione che si svolge su vari livelli. Ci sono parti musicali, pezzi di fiction, frammenti di realtà, paesaggi, semi-interviste, documentario, il tutto accomunato dalla presenza costante di un oggetto, il coltello, un coltello comune da cucina che è il simbolo di una condizione umana di limite, di essere creature di confine tra la vita e la morte, tra il bene e il male.
De Bernardi dice che in un suo film del 2004 il protagonista recitava un lungo monologo sul coltello del nonno e alla fine questo coltello non si vedeva. Così questo coltello compare ora, dopo due anni, per narrare la storia della vita e della condizione dell’uomo. Siamo tutti accoltellati e accoltellatori.
Questa metafora dell’esistenza può essere letta sotto vari punti di vista. L’autore ne accenna alcuni senza mai forzare il senso dell’immagine, lasciando libertà di interpretazione e pensiero.
C’è il conflitto all’interno della persona, quella tensione fra l’amare se stessi e il farsi del male (vari protagonisti del film usano il coltello contro se stessi, lo toccano, lo avvicinano al viso, lo nascondono, lo passano sul proprio corpo).
C’è l’ambiguità dell’amore, il gioco della seduzione, dove odio e amore coesistono e lacerano l’esistenza delle persone in una dialettica senza fine.
C’è ancora una possibile lettura politica del film. In una sequenza vediamo un uomo gobbo, deformato, appesantito dalla vita che entra in una proprietà privata e si trascina per un sentiero, aggrappandosi disperatamente ad un muro, a delle scale, inseguito da un altro uomo con un coltello che probabilmente lo vuole uccidere. Metaforicamente si potrebbe pensare alla condizione dell’uomo ucciso dal capitalismo, stremato da condizioni di vita umilianti. In un’altra parte del film c’è il racconto-intervista di un uomo che una domenica sera, senza preavviso, riceve una lettera di cassa-integrazione e di come quella notizia gli cambierà la vita provocandogli anni di crisi e sofferenza.
De Bernardi mescola fiction e realtà, i protagonisti del film sono i suoi amici e la sua famiglia, tutte persone che lui ama. La macchina da presa filma luoghi della realtà, momenti di vita quotidiana, le bambine che escono da scuola, che giocano, un pranzo, per spostarsi da Torino in provincia, registrare il racconto in dialetto piemontese (senza sottotitoli in linea con la poetica del regista) di una signora che parla della sua infanzia, per poi uscire dal Piemonte e arrivare a Procida e Roma. E’ un viaggio in territori diversi e con codici diversi, quello del regista, in cui i confini fra cinema e realtà crollano, la vita è il cinema e la macchina da presa è trasparente, nessuno la nota, è parte integrante di un modo di vivere che è gioco, rappresentazione, autoironia. Così vediamo Teresa, la nipote di De Bernardi che interagisce in diretta col nonno che la filma, che prende un coltello e lo da in mano alla sua bambola, togliendo all’oggetto qualsiasi connotato di pericolosità, restituendoci la passione per la vita che caratterizza lo sguardo del regista e quell’attitudine al gioco che fa anch’essa parte di tutti noi e ci può permettere di ironizzare sulla vita stessa.
Seconda puntata della seconda serie dei maestri dell’orrore, e questa volta in corsa ci sono John Carpenter e Mick Garris, ideatore e produttore della serie, lui anche fisicamente.
Si comicia con Carpenter, e Torino conferma la sua predilezione per il genere, per l’orrorifico e per il perverso, per il cupo, per la violenza sanguinolenta: ancora code chilometriche impantanate nel freddo, ancora una sala uno del cinema Massimo stracolma.
Questa volta però la qualità lascia un po’ a desiderare. “Pro-life” è una storia già vista, ambientata però in chiave contemporanea, che tutto sommato riesce, almeno negli intenti, a scavare nelle perversioni dominanti dell’America di George Bush: una quindicenne viene messa incinta da un demone delle prfondità terrestri, e suo padre, pazzo violento e fondamentalista cristiano, con uno stile tutto texano da cow-boy legionario di Cristo, sente la voce di Dio che gli ordina di salvare il bambino. La ragazza si rifugia in una clinica specializzata in aborti, dove il padre irrompe, accompagnato dai figli, e fa una strage di infedeli abortisti liberali. Senonchè il bambino nasce con un corpo da granchio, il demone risorge dagli inferi e il texano si rende conto dell’errore: a parlare non era stato Dio ma qualcosa di malvagio, ed ecco che la “teoria della volontà divina” (“it’s the God will”) si schianta con la realtà delle cose: e a noi viene di pensare all’Iraq, ad Al Quaeda, a Mel Gibson, alla Bibbia del presidente Bush.
Storia interessante, violenta, efficace. Anche perchè riesce a mescolare le manie conservatrici degli Usa neocon con tutto quell’immaginario collettivo/televisivo di stragi in luoghi pubblici, Columbine sopra tutte (e il riferimento è chiaro: il padre che arma i figli, i figli con l’aria da sfigati che camminano in corridoi illuminati al neon imbracciando fucili a pompa e pistole automatiche). Peccato per la resa formale, che ci auguriamo condizionata da una certa noncuranza e non da una trasformazione in chiave trash del cinema di John Carpenter: l’immagine è piatta, televisiva, i flashback e i flashforward si innestano nelle scene in tempo reale con dissolvenze da telenovela, gli effetti speciali ricordano serial televisivi dalla qualità discutibile come Buffy l’ammazzavampiri. Un’ottima idea, un risultato mediocre.
Peggio ancora è “Valerie on the stairs”, l’episodio di Mick Garris. Ci troviamo in una casa di soli scrittori, abitata dal fantasma di una ragazza (forse) uccisa e da quello di un demone che vive nelle pareti. Il protagonista, un belloccio fiducioso nelle sue potenzialità di narratore, comincia ad indagare, e quello che scopre sa molto più di parabola poetica sulla forza del testo creativo che di sceneggiatura horror: è stato un romanzo perverso, scritto da tre abitanti della casa, a dar vita ai fantasmi della donna e del demone, che fantasmi, a questo punto, non sono. Il demone ammazza i tre scrittori narcisisti e il giovane belloccio cerca di salvare la ragazza, senza riuscirci.
Struttura narrativa debole, farcita di clichè popolari (la casa infestata, la Bella e la Bestia) e di più astratte divagazioni sull’opera dell’artista (le parole che prendono forma, dove finisce la finzione e dove comincia la realtà eccetera eccetera). La forma cinematografica e narrativa non presenta eccessive sbavature, ma non fa nulla di più dello stretto indispensabile per confezionare un mediocre film di genere. E anche quando sembra che il tutto possa prendere una piega un po’ più sottile (il dubbio del protagonista: e se fossi anche io personaggio del romanzo?) o addirittura lirica (il protagonista si scopre fatto di carta, niente nervi o muscoli o sangue, solo fogli su fogli di carta stampata), Garris finisce sempre per optare per la soluzione più semplice, quella più scontata.
Ce ne andiamo con un po’ di amarezza.
6 risposte a “torino film festival 2006”
Un Jour a Marseille di Mauro Santini (di Emanuela Russo)
Santini, dopo aver vinto nel 2002 lo Spazio Italia del Torino Film Festival, presenta quest’anno nella sezione Detours, Un jour a Marseille.
Il lungometraggio è la storia di un viaggio intrapreso dal regista in tre luoghi della città, che incomincia una notte e termina la sera successiva. Entriamo subito nella notte di Marsiglia, con la macchina da presa che filma immobile dal finestrino di una macchina che percorre le vie della città e arriviamo a Boulevard d’Athénes. E’ passata la mezzanotte e il regista, dalle persiane di un appartamento che da sulla strada, riprende e spia ciò che avviene sul marciapiede di fronte a lui. C’è un bar che sta per chiudere, passano persone, pochi metri più in la del bar c’è un barbone coricato che fuma. Passa la solitudine in quel tratto di strada, sagome di persone dirette non si sa dove che lentamente attraversano lo spazio, ma passa anche la solidarietà quando una signora del bar porta una bevanda al barbone. E’ una notte che si sta per concludere come tante altre notti, nei gesti semplici di chi vaga per la città senza una meta (passa un altro barbone che manda via il primo da dov’era coricato), dei gestori del bar che tolgono tavolini e sedie, chiudono la saracinesca del locale.
Ci si sveglia il mattino dopo guardando sempre quel tratto di strada, il bar ha riaperto, persone di tutte le nazionalità passano distrattamente, al tavolino del caffè una coppia di turisti guarda una cartina e si scambia carezze d’affetto, un uomo solo fuma e sorseggia un drink dando l’impressione d’essere un frequentatore abituale del caffè.
A questo punto la macchina da presa si sposta e cambia luogo d’osservazione. Esce dall’appartamento, scende le scale e ci ritroviamo alla Grande Joliette, in riva al mare, nel pomeriggio soleggiato. Qui la macchina ferma in due punti d’osservazione riprende le persone che passano, i bambini che giocano, un venditore di bevande per poi concentrarsi sempre immobile su un altro venditore arabo che si sposta con il suo carrello di bevande e ci regala senza saperlo il suo momento di preghiera con i suoi riti e gesti lenti. Segue una panoramica ampia e vediamo un circo che chiude questa seconda parte di narrazione.
Arriviamo alla Corniche, macchina da presa fissa a riprendere la vita dentro le case sulla roccia e sul mare. Una famiglia sospesa nel tardo pomeriggio riunita attorno ad un tavolo, due bambine che saltano e giocano, una signora che lavora a maglia. La curiosità di una delle due bambine che va sul terrazzo, scende sulla roccia in riva al mare e immerge i piedi dentro l’acqua, attratta da qualcosa. Sulla stessa terrazza una signore, forse il padre che fuma disilluso con lo sguardo perso nel vuoto.
Tutto questo è Un jour a Marseille, un pianosequenza infinito del mondo, un video in gran parte compiuto nell’atto della ripresa con interventi minimi di montaggio, senza interventi sul tempo, sull’immagine, sui suoni. Un racconto di piccole storie osservate a distanza con accoglienza e comprensione, quasi con timidezza. Non ci sono attori, le immagini sono rubate dalla realtà e la narrazione rimane aperta ed errante, esposta alla casualità degli eventi e al continuo flusso della vita che ciclicamente continua. Le ultime immagini del film sono simboliche e aperte: vediamo la sagoma del signore che fuma riflessa nell’acqua e una delle due bambine che scende la scaletta verso il mare. Dalle parole del regista stesso, l’acqua è simbolo della ciclicità della vita, del ritorno nel grembo materno e la bambina è l’infanzia, una storia che continua a muoversi oltre la telecamera, un modo per parlare di se attraverso gli altri.
Maestri dell’orrore a Torino (mio)
Arriva al Torino Film Festival il secondo capitolo della saga “Masters of horror”, il progetto statunitense che raccoglie i migliori registi del genere nella realizzazione di una serie di episodi (uno per regista) della durata esatta di 60 minuti.
E basta la voce che in sala, a presentare i film, ci saranno anche Dario Argento e John Landis a creare per le vie della città un’aspettativa frenetica, fatta di mormorii e pettegolezzi, che sa di grande evento.
Ad attendere la proiezione troviamo una coda sterminata di fan e curiosi, infreddoliti ma straordinariamente determinati. Non entrano in molti, ma chi ce la fa non resterà deluso.
Perchè? Innanzitutto per lo spettacolo che la coppia comica-orrorifica Argento-Landis regala alla platea: battute, chiacchiericci, provocazioni, divagazioni e voli pindarici che con il cinema non hanno quasi nulla a che vedere, ma che piacciono un sacco.
E poi per la qualità delle opere. “Pelts”, di Dario Argento (che proprio a Torino è impegnato nella realizzazione del suo ultimo film) è un horror senza tensione ma truculento all’inverosimile. E’ una storia surreale di follie feticistico-narcisiste, al centro della quale si trova una pelliccia di procione dotata di poteri paranormali: chiunque ne venga a contatto uccide, e poi si uccide. Niente di nuovo, ma tutto ben fatto: dalla solita sottoumanità di poveracci pervertiti che ormai ha fatto scuola (penso a Soavi, grande discepolo del maestro Argento) alla classica serie di virulenze (pelli strappate, occhi e labbra cucite, corpi maciullati, ventri squarciati) che al pubblico in sala (sarà Torino?) piacciono oltre ogni dire: ogni schizzo di sangue, ogni osso fratturato, ogni arto amputato è salutato da una serie scrosciante di applausi.
“Family” di Landis è invece più complesso. E’ un horror comico, innanzitutto, un genere di confine e poco sperimentato, che ha ancora molto da dire. Racconta la storia di un vecchio scapolo dalla perfetta educazione angolosassone, che decide di costruirsi una famiglia uccidendo e disseccando le ossa delle vittime: una famiglia fatta di uno scheletro-bambina, di uno scheletro-mamma, e di due scheletro-nonni. Lo sfondo è quello della perfetta cittadina nordamericana, viali alberati, casette bianche, belle auto, una sorta di primavera perenne dove tutti sorridono e sono gentili gli uni con gli altri. Cosa vuole dire Landis con questo film? Essenzialmente due cose. Primo (e più semplice) che anche il volto pulito dell’America nasconde una perversione inalienabile dal contesto, una violenza gentile ma feroce, una follia angosciante proprio perchè metodica, lontana dalle immagini di bestialità che il sintagma “morte violenta” suggerisce. In secondo luogo, poi, si snoda una riflessione sottile e irrimediabilmente pessimista sulla famiglia borghese: luogo pulito perchè fatto di scheletri scarnificati, dove la perfezione formale arriva a coincidere con la totale dissoluzione dell’individuo. Ed è così che questo film, inaspettatamente, crea un’angoscia e una tensione striscianti, non lascia indifferenti nonostante la comicità manifesta.
ELIORAMA di Maicol Casale e Alberto Momo (Emanuela Russo)
Nella sezione Doc 2006 in concorso troviamo il documentario di due giovani registi torinesi, il secondo dei quali già noto al Festival per aver presentato l’anno scorso “Fiaba nera”.
Anche quest’anno il tema della fiaba è centrale in “Eliorama”, viaggio intimo ed estetico a scoprire le architetture di Elio Luzi, il suo pensiero e forse anche una Torino diversa.
“Viaggiatori stanchi di città infallibili e della loro bellezza assestata, avventuratevi una sera nei viali dritti e inquietanti di Torino, città di pianura intessuta dall’infinito. Architetture inaudite vi attendono, imboscate.” Comincia così la fiaba di Eliorama che ci porta a visitare luoghi fantasmagorici che ricordano il mondo dell’infanzia, architetture avventurose e fantastiche e un pensiero, quello di Elio Luzi, ricco di vitalità e filosofia.
Si parte dalla bellissima casa di P.za Crimea, nella zona collinare di Torino, un’architettura irregolare e fatta di curve, priva di angoli e spigoli, nella quale nessun appartamento è uguale all’altro, per poi visitare altri edifici disseminati qua è la nella città. Luzi crea le sue opere in antitesi alla razionalità della maggioranza degli edifici costruiti nella città. Cerca di sfruttare l’irregolarità e l’imperfezione del terreno sul quale deve dar vita ad un progetto, con la convinzione che ciò che non si controlla, che non è razionale, sia la l’essenza della vita, la condizione per ogni forma di creatività.
L’imperfezione è dell’anima e l’architettura rispecchia questo stato ontologico dell’uomo, dando la possibilità a chi abiterà quello spazio di vivere in libertà e magari migliorare la propria qualità di vita.
Eliorama è la prima parte di un progetto ancora da ampliare, alterna momenti di fiction (con i quali si apre e si chiude il lavoro) al documentario vero e proprio, fatto di luoghi della città e riflessioni, ricordi. La macchina da presa si muove lenta e ci introduce alla scoperta di questi luoghi descritti ma anche vivi e abitati, in una città che regala sorprese e angoli in cui poter ancora viaggiare con la fantasia.
Le politiche informali della Mtv generation (mio)
Arrivano sul grande schermo le inchieste generazionali del trio Coppola-Giommi-Piccinini, collaudata squadra televisiva portata al successo, qualche anno fa, dal cult di Mtv “Avere vent’anni”, prodotto intelligente, di alta qualità formale e dai contenuti più che interessanti: una serie di interviste informali a giovani di età compresa tra i venti e i trent’anni, tra prcariato e lifestyle, tra denuncia sociale e spaccato di vita quotidiana.
A Torino portano “Politica Zero”, film-documentario (compare nella rassegna “Concorso Doc”) dal titolo potente, sui rapporti tra giovani e politica.
Il film, due ore scarse ricavate da ottanta ore di filmato, si presenta come una puntata di “Avere vent’anni” allungata, dal tema più specifico, e, naturalmente, dalla natura politica più marcata. Il progetto consiste fondamentalmente nel seguire gli ultimi mesi di campagna elettorale dei quattro più giovani candidati (poi tutti eletti) alle politiche 2006: Giorgia Meloni (An), Arturo Scotto (Ds), Mara Carfagna (Fi) e Francesco Caruso (Prc).
Passando dalla Torino dei neofascisti per arrivare alla Napoli dei “berluschini” e del movimento antagonista, muovendosi tra personaggi ambigui, tra opportunisti e poveracci assuefatti al populismo mediatico di marca berlusconiana, il documentario riesce a dare uno spaccato soddisfacente dell’atteggiamento dei giovani nei riguardi delle istituzioni politiche. Ciò che ne emerge è una confusione vagamente rassegnata (e vagamante disperata) fatta di compromessi e promesse impossibili: veramente un grado zero della politica, un vuoto totale di riferimenti istituzionali. (E per questo basterebbero i brani realtivi alla Carfagna: subrette ascesa agli olimpi della politica che vede in Forza Italia qualcosa come l’incarnazione dei principi di libertà (!), trasparenza (!!) e addirittura legalità (!!!)).
Se si aggiunge a tutto questo una resa formale veramente qualitativa (un digitale riversato in 35mm dai toni cupi, plumbei, più da noir che da cinema-verità) si potrebbe pensare che il risultato sia ineccepibile.
Eppure, anche se il trio riesce nel suo intento, confezionando un lavoro certamente valido sia da un punto di vista artistico che da un punto di vista sociale-politico, qualcosa manca. Manca forse un discorso forte di fondo, un occhio veramente critico su un tema spinoso come quello dei rapporti tra giovani e politica, che non si limiti alla semplice constatazione che, appunto, politica zero.
La domanda che mi sentirei di fare a Coppola e compagni, ora come ora, è questa: davvero il rapporto giovani/politica può essere appiattito al rapporto giovani/partito? Non c’è in questa scelta aprioristica un che di inquietante, che finisce con l’identificare la politica italiana con una partitocrazia che sta agonizzando da quindici anni? Se la risposta dei giovani alla domanda politica è zero, non è forse vero che il problema sta nella lenta morte che la politica istituzionale/partitica sta consumando in questo paese?
Esiste in Italia tutta una fitta rete politica slegata dal contesto istituzionale, che va dall’asociazionismo ai movimenti, dall’antagonismo alle politiche per il territorio, in cui i giovani sono sempre più attivamente impegnati.
Non era forse il caso, a questo punto, di rivolgere uno sguardo a queste realtà che, nel bene e nel male, stanno davvero modificando il panorama politico del nostro paese, stanno davvero cominciando ad influire sulla vita dei cittadini? Forse la risposta sarebbe stata diversa.
Accoltellati (di Emanuela Russo)
Creatura di Tonino de Bernardi, autore di cinema underground dal 1967. Oggi preferisce chiamare il suo cinema “sperimentale”, non ama definirsi e dice che la condizione dell’essere sotto terra gli appartiene ma che poi esce anche in superficie.
Accoltellati è un film di visioni, musica e teatro che si susseguono in una narrazione mista e frammentata, irregolare, una comunicazione che si svolge su vari livelli. Ci sono parti musicali, pezzi di fiction, frammenti di realtà, paesaggi, semi-interviste, documentario, il tutto accomunato dalla presenza costante di un oggetto, il coltello, un coltello comune da cucina che è il simbolo di una condizione umana di limite, di essere creature di confine tra la vita e la morte, tra il bene e il male.
De Bernardi dice che in un suo film del 2004 il protagonista recitava un lungo monologo sul coltello del nonno e alla fine questo coltello non si vedeva. Così questo coltello compare ora, dopo due anni, per narrare la storia della vita e della condizione dell’uomo. Siamo tutti accoltellati e accoltellatori.
Questa metafora dell’esistenza può essere letta sotto vari punti di vista. L’autore ne accenna alcuni senza mai forzare il senso dell’immagine, lasciando libertà di interpretazione e pensiero.
C’è il conflitto all’interno della persona, quella tensione fra l’amare se stessi e il farsi del male (vari protagonisti del film usano il coltello contro se stessi, lo toccano, lo avvicinano al viso, lo nascondono, lo passano sul proprio corpo).
C’è l’ambiguità dell’amore, il gioco della seduzione, dove odio e amore coesistono e lacerano l’esistenza delle persone in una dialettica senza fine.
C’è ancora una possibile lettura politica del film. In una sequenza vediamo un uomo gobbo, deformato, appesantito dalla vita che entra in una proprietà privata e si trascina per un sentiero, aggrappandosi disperatamente ad un muro, a delle scale, inseguito da un altro uomo con un coltello che probabilmente lo vuole uccidere. Metaforicamente si potrebbe pensare alla condizione dell’uomo ucciso dal capitalismo, stremato da condizioni di vita umilianti. In un’altra parte del film c’è il racconto-intervista di un uomo che una domenica sera, senza preavviso, riceve una lettera di cassa-integrazione e di come quella notizia gli cambierà la vita provocandogli anni di crisi e sofferenza.
De Bernardi mescola fiction e realtà, i protagonisti del film sono i suoi amici e la sua famiglia, tutte persone che lui ama. La macchina da presa filma luoghi della realtà, momenti di vita quotidiana, le bambine che escono da scuola, che giocano, un pranzo, per spostarsi da Torino in provincia, registrare il racconto in dialetto piemontese (senza sottotitoli in linea con la poetica del regista) di una signora che parla della sua infanzia, per poi uscire dal Piemonte e arrivare a Procida e Roma. E’ un viaggio in territori diversi e con codici diversi, quello del regista, in cui i confini fra cinema e realtà crollano, la vita è il cinema e la macchina da presa è trasparente, nessuno la nota, è parte integrante di un modo di vivere che è gioco, rappresentazione, autoironia. Così vediamo Teresa, la nipote di De Bernardi che interagisce in diretta col nonno che la filma, che prende un coltello e lo da in mano alla sua bambola, togliendo all’oggetto qualsiasi connotato di pericolosità, restituendoci la passione per la vita che caratterizza lo sguardo del regista e quell’attitudine al gioco che fa anch’essa parte di tutti noi e ci può permettere di ironizzare sulla vita stessa.
Masters of horror seconda puntata (mio)
Seconda puntata della seconda serie dei maestri dell’orrore, e questa volta in corsa ci sono John Carpenter e Mick Garris, ideatore e produttore della serie, lui anche fisicamente.
Si comicia con Carpenter, e Torino conferma la sua predilezione per il genere, per l’orrorifico e per il perverso, per il cupo, per la violenza sanguinolenta: ancora code chilometriche impantanate nel freddo, ancora una sala uno del cinema Massimo stracolma.
Questa volta però la qualità lascia un po’ a desiderare. “Pro-life” è una storia già vista, ambientata però in chiave contemporanea, che tutto sommato riesce, almeno negli intenti, a scavare nelle perversioni dominanti dell’America di George Bush: una quindicenne viene messa incinta da un demone delle prfondità terrestri, e suo padre, pazzo violento e fondamentalista cristiano, con uno stile tutto texano da cow-boy legionario di Cristo, sente la voce di Dio che gli ordina di salvare il bambino. La ragazza si rifugia in una clinica specializzata in aborti, dove il padre irrompe, accompagnato dai figli, e fa una strage di infedeli abortisti liberali. Senonchè il bambino nasce con un corpo da granchio, il demone risorge dagli inferi e il texano si rende conto dell’errore: a parlare non era stato Dio ma qualcosa di malvagio, ed ecco che la “teoria della volontà divina” (“it’s the God will”) si schianta con la realtà delle cose: e a noi viene di pensare all’Iraq, ad Al Quaeda, a Mel Gibson, alla Bibbia del presidente Bush.
Storia interessante, violenta, efficace. Anche perchè riesce a mescolare le manie conservatrici degli Usa neocon con tutto quell’immaginario collettivo/televisivo di stragi in luoghi pubblici, Columbine sopra tutte (e il riferimento è chiaro: il padre che arma i figli, i figli con l’aria da sfigati che camminano in corridoi illuminati al neon imbracciando fucili a pompa e pistole automatiche). Peccato per la resa formale, che ci auguriamo condizionata da una certa noncuranza e non da una trasformazione in chiave trash del cinema di John Carpenter: l’immagine è piatta, televisiva, i flashback e i flashforward si innestano nelle scene in tempo reale con dissolvenze da telenovela, gli effetti speciali ricordano serial televisivi dalla qualità discutibile come Buffy l’ammazzavampiri. Un’ottima idea, un risultato mediocre.
Peggio ancora è “Valerie on the stairs”, l’episodio di Mick Garris. Ci troviamo in una casa di soli scrittori, abitata dal fantasma di una ragazza (forse) uccisa e da quello di un demone che vive nelle pareti. Il protagonista, un belloccio fiducioso nelle sue potenzialità di narratore, comincia ad indagare, e quello che scopre sa molto più di parabola poetica sulla forza del testo creativo che di sceneggiatura horror: è stato un romanzo perverso, scritto da tre abitanti della casa, a dar vita ai fantasmi della donna e del demone, che fantasmi, a questo punto, non sono. Il demone ammazza i tre scrittori narcisisti e il giovane belloccio cerca di salvare la ragazza, senza riuscirci.
Struttura narrativa debole, farcita di clichè popolari (la casa infestata, la Bella e la Bestia) e di più astratte divagazioni sull’opera dell’artista (le parole che prendono forma, dove finisce la finzione e dove comincia la realtà eccetera eccetera). La forma cinematografica e narrativa non presenta eccessive sbavature, ma non fa nulla di più dello stretto indispensabile per confezionare un mediocre film di genere. E anche quando sembra che il tutto possa prendere una piega un po’ più sottile (il dubbio del protagonista: e se fossi anche io personaggio del romanzo?) o addirittura lirica (il protagonista si scopre fatto di carta, niente nervi o muscoli o sangue, solo fogli su fogli di carta stampata), Garris finisce sempre per optare per la soluzione più semplice, quella più scontata.
Ce ne andiamo con un po’ di amarezza.