Ho scoperto David Szalay nel settembre del 2016, quando il suo quarto libro è stato candidato un po’ a sorpresa al Man Booker Prize. A colpirmi era stato il titolo, All that a man is, che prometteva di esplorare un argomento di fondamentale importanza eppure ancora incredibilmente trascurato: quello dell’identità maschile in un periodo – e con “periodo” intendo tutto il Novecento – in cui i rapporti tra generi sono stati soggetti a cambiamenti radicali. Ho comprato il libro in inglese e non l’ho letto, distratto da altro.
Un anno più tardi, il 5 ottobre 2017, un articolo del New York Times faceva scoppiare il caso Harvey Weinstein. A novembre, dunque in tempi troppo stretti perché tra le due cose ci fosse una connessione diretta, Adelphi pubblicava la traduzione italiana (di Anna Rusconi) del libro di Szalay. A quel punto ho rispolverato la mia edizione inglese, l’ho letta e ho fatto una scoperta: Tutto quello che è un uomo è uno dei libri di narrativa anglosassone più belli tradotti in italiano nel 2017 e David Szalay è uno scrittore straordinario. Il libro – una raccolta di storie che seguono nove protagonisti maschili in diverse fasi della vita, dall’adolescenza alla vecchiaia – è una meravigliosa riflessione sul passare del tempo e sulla sostanza di cui è fatta l’esistenza, e lo stile di Szalay (classe 1974) è ipnotico, di quelli che ti legano a un libro dall’inizio alla fine. Abbiamo fatto una chiacchierata.