Si parlerà di 10 Cloverfield Lane per tanti motivi – l’uso riuscito del colpo di scena, il rapporto con il film del 2008, la solita mano di Abrams in tutto quello che tocca. A me ha colpito questo (attenzione, spoiler!): il fatto che John Goodwin sia psicotico e al contempo abbia ragione riguardo allo stato della realtà ha una certa rilevanza culturale. In primo luogo perché, se 10 Cloverfield Lane è un film sulla fabbricazione narrativa del reale, allora il suo senso ultimo è che non c’è più distanza tra la realtà e la sua narrazione: l’opposto di quello che capitava in The Village (quello dichiaratamente un film sulla produzione narrativa del reale per fini politici, oltre che una bellissima metafora psicologica) dove al di fuori della foresta c’era la vita di tutti i giorni. E poi perché ha un corollario inquietante: anche se riesci a scappare dal bunker ti troverai in un bunker più grande dal quale non si può scappare – grande quanto la Terra intera, in effetti. Qui i riferimenti si sprecano, dall’Area X che fuoriesce dai propri confini e ingloba tutto il mondo all’assenza di un altrove nella filosofia di Timothy Morton. Nelle forme più disparate (in 10 Cloverfield Lane con il solito remix vintage semiserio) l’arte di questi anni sembra riflettere su questo punto ancora e ancora.