1.
estate
Nella baita avevano appena messo il telefono. Il telefono era nero e tondo, veniva dagli anni 60. L’avevano messo su una panca sulla quale era incisa una data: 1734. Adesso erano nel 1986. Il tempo andava avanti e indietro, nessuno era ancora riuscito a capire con quale logica.
La baita era un possedimento comune dei 3 abitanti di fondovalle, tutti in qualche modo imparentati tra loro. Il telefono no. Il telefono era di Martine, un’ex arancione in fuga da Milano e dalle sue delusioni. Il movimento si era esaurito. Vivek aveva chiuso i battenti. La new age si era rivelata un innamoramento passeggero. L’unico scopo dei maschi sembrava quello di produrre sperma, incuranti delle conseguenze fatali di quel piccolo miracolo biologico.
Affrontare la fine degli anni 80 a Milano sembrava francamente impossibile. Passare dalle bombe ai Duran Duran in un’estate sembrava francamente impossibile. Eppure succedeva. Il tempo andava e veniva.
Nell’estate del 1986 le baite di montagna del Piemonte orientale raccoglievano i reduci. Dalla psichedelia, dal 68, dal pacifismo, dall’India, dall’eroina, dall’autop e di nuovo dall’eroina.
Una cosa come 733 anni prima negli stessi luoghi si riuniva una specie diversa di reduci: i reduci dalla chiesa, dalle eresie, dalle stregonerie, dai malocchi, dalle mutazioni genetiche provocate dagli incesti. Il tempo tornava indietro e poi ricominciava a scorrere per il verso giusto. Il telefono degli anni 60 era sempre lì, sulla panca del 1734, nella baita del 1253 di proprietà dei sopravvissuti al 77.
La logica interna a questi movimenti restava un mistero.
Il telefono squillò una prima volta: qualcuno che aveva sbagliato numero.
Mentre qualcuno da qualche parte sbagliava numero, nella baita walser del 1253 l’attività umana era in fermento.
Il professore buddista fumava la pipa, proprio come il professore ateo che era suo fratello. La moglie del professore ateo lavava il figlio nella vasca da bagno. Un tedesco con una lunga barba bionda leggeva Heidegger. La moglie del tedesco affettava scalogno e barbabietole in cucina. Martine dipingeva in veranda. I bambini giocavano sparpagliati all’ombra.
Un corniciaio con la passione della fotografia fotografava i bambini che giocavano all’ombra. I bambini giocavano a spiare il corniciaio, che credevano essere il Cattivo di un cartone animato. Il corniciaio giocava a spiare i bambini, credendo di non essere visto perché aveva in mano una macchina fotografica.
Soltanto un altro grande equivoco che non sarebbe mai stato chiarito.
Dopo quella volta il telefono non squillò più per un pezzo. Il professore buddista continuò a fumare la pipa, Martine a dipingere le montagne per dimenticare Milano che l’aveva delusa.
Il tedesco che leggeva Heidegger si era messo a coltivare l’orto. Nei giochi dei bambini il Cattivo aveva assunto forme misteriose: il buio, le lucciole, la mamma. Il corniciaio continuava a scattare foto per fermare quel viavai folle del tempo. I bambini avevano smesso di considerarlo.
Nella baita walser del 1253, in quell’estate del 1986, i bambini erano 4: due femminucce (entrambe tedesche) e due maschietti (entrambi italiani). Uno dei due maschietti era nato a Milano dall’ennesima delusione di Martine, e aveva 3 anni. L’altro maschietto era figlio del professore ateo e aveva 6 anni. Le bambine avevano 4 e 7 anni. Il bambino ateo si chiamava Vladimir come il più ateo degli atei. Di giorno giocava all’ombra. Inseguiva animali preistorici che non erano mai esistiti e salvava principesse travestite da funghetto allucinogeno. (Un giorno aveva visto un disegno sul diario di sua madre: una bambina bellissima vestita da fungo. Sotto c’era scritto: FUNGO!!! Fu il primo amore della sua vita).
Un pomeriggio successe una cosa. Vladimir, il bambino dotato di superpoteri, aveva quasi sconfitto il Cattivo e il suo animale preistorico falso ed era ad un passo dal liberare la principessa FUNGO!!!
E a quel punto il corniciaio si era messo in mezzo. Gli aveva detto: “Ti faccio una foto”. Aveva detto: “Continua a giocare”. Come dire: “Addio mia principessa”.
Non aveva detto più niente ma la macchina fotografica aveva fatto: click!
Il Cattivo era fuggito in groppa al suo animale preistorico, portandosi via la principessa.
Quindici giorni di agosto erano passati così: alberi, prati, rocce, deserti, ombre, vuoti. Il sole ormai tramontava alle 4 di pomeriggio. La vita della valle sarebbe ricominciata presto. Code in posta. Aule affollate di liceali proto-punk. Elettrodomestici. Il Sistema, entropico, decentrante, alienante, atomizzante. Nasci produci consuma crepa.
(Tutte le principesse a forma di fungo erano state salvate, c’era bisogno della televisione per alimentare nuove fantasie.)
Il telefono squillò una seconda volta il giorno dopo ferragosto.
Rispose la bambina tedesca. Martine corse a prendere il ricevitore. La voce dall’altra parte assomigliava più al tedesco che all’italiano o al francese. Disse: “Guido”. Martine urlò: “Guidooooo!”.
Guido, che poi era il corniciaio, arrivò e si aggrappò al ricevitore come un bruco ad una foglia. Ci si avvolse, ci si ripiegò, ci si rannicchiò contro. Per trenta secondi, poi appese.
Quella sera a cena Guido disse: “Oggi. Al telefono. Era Emy”. Emy era la fidanzata olandese di Guido. Guido disse: “Parto per Utrecht. Forse già questa sera”. Si mise in bocca un pezzo di pane al sesamo e deglutì. “Sì”, disse. “Già questa sera. Per forza questa sera”.
Gli altri, come c’era da aspettarsi, vollero sapere se era successo qualcosa. Di grave, magari. Una tragedia, magari.
Guido disse di no, di no e di no. Ma che doveva partire. Cose da coppie. Cose che sapevano loro.
Dopo cena, mentre preparava i bagagli, pensò al tempo che andava avanti e indietro senza una logica apparente. Pensò anche allo spazio da percorrere, allo spazio percorso e alla relatività delle dimensioni. Decise che sarebbe arrivato ad Utrecht senza mai fermarsi, nemmeno per dormire. “Nemmeno per pisciare”, si disse. Di corsa. “Come un pazzo”, si disse.
Come un pazzo: solo il pensiero lo metteva di buon umore.
(Guido partì. I bambini giocarono a scomparire. C’era odore freddo d’erba umida. Scomparire nell’odore d’erba umida era facile. Bastava pensare che non esistevi e nessuno ti avrebbe visto.
Gli adulti scomparvero davvero e ricomparvero per mettere a letto i bambini. Poi il mondo scomparve di nuovo e comparirono sogni. Vladimir sognò un cielo viola e immobile e si svegliò piangendo. Sua madre ricomparve per spiegargli che andava tutto bene. Vladimir smise di piangere e si addormentò.)
Quarantotto ore dopo il telefono squillò per la terza volta. Rispose Martine. Ancora quella lingua che non sembrava italiano né francese. Sfoggiando tutte le sue conoscenze in materia di lingue anglofone Martine disse: “Wait!”. E andò a chiamare il tedesco che leggeva Heidegger.
Il quale andò al ricevitore e vi rimase dieci minuti dimostrando scarso interesse per l’oggetto e per la conversazione.
Quando anche lui ebbe agganciato disse: “Emy, la ragazza di Guido, l’olandese, dice che Guido non è arrivato a Utrecht, dice che non c’è, che non ha telefonato, dice che non sa dov’è, è un po’ preoccupata anche”.
Tutti gli altri diedero mostra di essere perplessi.
2.
autunno
La vita a fondovalle era ricominciata. Dagli alberi nevicavano foglie accartocciate che facevano il rumore della carta di giornale. Vladimir, il bambino ateo, schivava le foglie che provocavano ustioni mortali.
Aveva avuto una virata fantascientifica provocata dal passaggio di Guerre Stellari in tv. Niente più funghi. Niente falsi animali preistorici. Quelle erano cose da estate. Da prati, mirtilli, lucciole.
Adesso dovevi infilarti la maglia di lana e andare a scuola.
Quell’anno era in seconda. Disegnava mondi desertici popolati da forme di vita dai contorni geometrici. La Terra nel 2580: tutto quanto, alla fine del 1986, sembrava il 2580.
E Vladimir, il bambino dello spazio, si sentiva decisamente a suo agio.
Per gli adulti il 1986 era soltanto il 1986. Niente animali preistorici, niente cyborg. Il loro universo mutante era popolato da creature ben più mostruose: politici, banchieri, modelle, missili atomici. Il 2580 era soltanto un altro luogo che non avrebbero mai visto. Punto.
Il padre di Vladimir era tornato a insegnare filosofia nel suo liceo di provincia. Sua madre aveva ripreso in mano i libri dell’università. Suo zio (il professore buddista) era tornato a Bologna dove faceva il ricercatore. Il tedesco e sua moglie erano tornati in Germania.
Martine aveva deciso di passare l’inverno dai genitori di Vladimir, nella stanza degli ospiti. Aveva trovato lavoro come cameriera in un ristorante. Cercava una casa. Suo figlio era troppo piccolo per fare qualsiasi cosa, quindi non faceva niente. La madre di Vladimir gli cambiava il pannolino quando lo sentiva piangere. Poi tornava ai suoi libri di psicologia, e la questione era in qualche maniera risolta.
La scomparsa improvvisa di Guido era stata interpretata dalla piccola comunità di adulti come Atto Geniale e Controverso del Vero Artista. Insomma Guido queste cose le faceva. Non importava che fosse solo un corniciaio. L’arte è qualcosa di invisibile ai più. Insomma non c’era motivo di preoccuparsi. Fantasia al potere.
Questo è ciò che si dicevano al telefono. Camminando in cerca di funghi la domenica mattina. In coda alla cassa del nuovo centro commerciale a basso costo (i cartelloni fucsia fatti a stella dicevano: SVENDITA! Sembrava volessero svendere tutto. Anche loro si sentivano svenduti. Stavano cominciando tempi difficili, lo sapevano, non potevano farci niente).
In realtà questa faccenda di Guido era un problema per tutti. Tutti si chiedevano che fine avesse fatto. Se stesse bene. Perché non fosse mai arrivato a Utrecht. E dove si era cacciato, poi? Era in Italia? In Olanda? In quale tempo? Nel 1253? Nel 2580?
La lettera che arrivò ai genitori di Vladimir sul finire di ottobre fu un sollievo. Non rispondeva alle domande essenziali ma forniva qualche indizio. Non spiegava il senso della vita ma teorizzava la forza di gravità. Era già qualcosa.
La lettera diceva così:
Cari amici,
vi sarete accorti che sono scomparso. Emy forse vi avrà telefonato, non so.
Qui va tutto bene. Sto bene. Sono successe delle cose. Ho solo bisogno di riflettere. Vi prometto (vi giuro!) che un giorno vi telefonerò e allora ci rivedremo e vi racconterò tutto.
Non pensate a me.
Anzi no: pensateci, ma non preoccupatevi.
Vi chiamo.
Vi bacio tutti.
Guido
P.S. Mi dispiace per Emy!!! Lei mi odierà e io non posso chiamarla dal luogo in cui sto andando. Se la sentite ditele che sto bene e che mi dispiace per tutto.
P.P.S. Il tempo va e viene. È tutto un gran casino. Quando ci vediamo vi spiego.
La lettera era stata affrancata in Germania e portava la data di una settimana prima.
La piccola comunità di adulti la lesse e la rilesse e non riuscì a cavare un ragno dal buco.
Vladimir, il bambino dello spazio, ci sarebbe riuscito, ma si trovava nel 2580 e non aveva nessuna voglia di tornare indietro.
3.
inverno
Diciassette anni dopo era a Bologna. Non era più nel 2580 ma nel 2003, anima corpo e ciclo ormonale.
Non era più un bambino dello spazio ma uno studente del DAMS. Portava la barba e indossava t-shirts con scritte simpatiche. “I belong to Jesus”, per esempio. “Shampoo suicide”. “Kill your brain”.
Passati di moda i Duran Duran era finito tutto. Tutto liquidato. Deserto. Dieci anni di seppuku collettivo (elettronica nei capannoni industriali, droghe sintetiche, rapporti a rischio) poi l’apocalisse.
Adesso era ora di ricominciare, e non era semplice come sembrava. C’era nell’aria una perplessità imbarazzata. La gente non sapeva esattamente cosa dirsi. Si stringeva nelle spalle e tirava dritta per la propria strada.
Tre cose l’avevano spinto a Bologna: suo zio, il professore buddista, insegnava lì all’università. Primo. Secondo, Bologna faceva finta di essere nel 77. Via Mascarella, Paz, Paolo Fabbri (chiunque fosse). Vladimir veniva dal futuro e il presente continuava a sembrargli un tantino sclerotico. Un salto nel passato era come prendere ossigeno.
E terzo le donne. Se non puoi tenere fermo il tempo almeno fai sesso. Questo era diventato il suo motto con il passare degli anni: sesso. Da neanderthal ai replicanti, tutti volevano fare sesso. Era il sesso il vero motore del mondo. Qualcosa di sicuro, una certezza.
Stava a porta San Donato immerso in un ambiente familiare: facce nuove tutti i giorni, sveglia ad ore improbabili, tende di seta indiana, yoga, amici con l’MDMA, amici che avevano smesso con l’MDMA. Vivevano in 4, ma forse erano in 12 e forse era solo.
Forse. Bologna almeno era una certezza. Se ti chiami Vladimir, d’altronde, non tutti i luoghi sono pronti ad accoglierti. Questa era un’altra certezza. Come il 77 e i Television a qualsiasi ora del giorno. “Luna padiglione”? Cosa significava? Non l’aveva mai capito.
Faceva un po’ di sesso e tutto passava.
L’inverno del 2003 era rigido, ma non troppo. C’era gente che avrebbe passato in piazza Santo Stefano anche il giorno del giudizio, ma non troppa. Tutto il resto invece era troppo, e andava bene così.
L’equilibrio stava nell’ignorare certi fatti lampanti. Vladimir, come tutti i suoi amici, era cresciuto con Mtv: ignorare fatti lampanti era praticamente la regola. Quindi nessun problema. Fallo e basta, praticamente uno scherzo.
Questi fatti lampanti erano di natura eterogenea. Uno, per esempio, poteva essere il sesso. Poteva darsi, per esempio, che fare sesso non fosse esattamente un modo pratico di svuotare i testicoli. Per esempio. Poteva darsi che avesse a che fare con l’infanzia, il passato, il futuro, la specie, il cibo, il rapporto con tua madre.
Vladimir non ci aveva mai pensato, ma per lui il sesso aveva a che fare essenzialmente con il silenzio.
C’era un rumore, nella testa di Vladimir. Il rumore era cominciato ai tempi della montagna, nel 1986, nel 1253, c’era da sempre. C’era un omino, nel cervello di Vladimir, che diceva un sacco di parole. Parole parole e ancora parole. Questo omino aveva viaggiato nel tempo. Diceva cose sulle epoche storiche che passano e sulle cose che si dissolvono come sabbia.
Diceva: “Non vedi che tutto è già finito prima di cominciare?” E: “Rilassati, ragazzo, tanto non c’è niente da fare!” E anche: “Non è il caso di agitarsi, un giorno tornerai da dove sei venuto e allora capirai tutto”.
Inalare odore di corpi sudati, leccare saliva e gemiti e umori era un modo per recuperare il senso. L’omino stava zitto. Il muro di Berlino non era mai caduto. Niente crisi post-adolescenziali. Niente morti al World Trade Center. Niente AIDS.
Tutto andava per il meglio, se l’omino continuava a stare zitto.
(Alla fine dei conti era una costante algebrica. Ignorarla era diventato piuttosto facile. Se l’omino stava zitto tanto meglio. Se parlava l’importante era parlare a voce più alta di lui, agitarsi più di lui, sfregarsi e contorcersi in tutto il fango possibile.
Comunque andasse, Vladimir ci si era abituato.)
Ogni periodo della vita di uno studente ha i suoi chiodi fissi. Il cinema, la droga, il sesso, la solitudine, lo sport, la creta, lo yoga, la boxe, qualunque cosa.
Per Vladimir e compagni la fissa dell’inverno 2003 era il calcio balilla. Fissa non molto originale, ma tant’è. Giocavano a calcetto tutti i giorni. Sognavano partite di calcetto. Organizzavano enormi tornei di calcetto. I rapporti tra i sessi erano regolati dal calcetto. Si creavano e distruggevano coppie per un gol dalla difesa.
Andava avanti così da tutto gennaio. Poi avrebbero scordato il calcetto, il gruppo si sarebbe sciolto, si sarebbero formati altri gruppi. Fuori era inverno più che mai. Tutto poteva sembrare schizofrenico, o soltanto una maniera come un’altra per restare a galla. Ma era soltanto un altro fatto trascurabile, uno soltanto di una serie infinita.
La sera del 17 faceva un freddo fottuto. Non riuscivi a tenere il moccio su per le narici nemmeno a piangere. E Bologna Dentro Le Mura era stranamente deserta. Poco male, l’appuntamento era al solito posto al Pratello per la solita partita a calcetto. Nessun problema se era inverno. Se Bologna sembrava un deserto lunare popolato da morti viventi.
Le notti non erano un problema, mai.
Le mattine a volte sì. Quella mattina era bastato uscire a comprare le sigarette per capire che qualcosa non andava. La giornata era stata lenta e incolore. Vladimir era rimasto a guardare la tv tutto il giorno, aveva cenato in casa ed era uscito. E Bologna era deserta. E fredda. E vagamente aggressiva. I movimenti gli sembravano rallentati. Un’attesa potenzialmente eterna.
Era un presentimento tragico, che aveva a che fare con troppe cose: montagne, principesse travestite da funghetti allucinogeni, viaggi nel tempo.
L’omino che si nascondeva nella sua testa.
Mentre camminava per via Zamboni Vladimir cercava di liberarsi di questa sensazione. Si calcava la cuffia in testa e si diceva: “Questa sera non penserò a nulla”. Diceva: “Non mi fermerò un secondo per pensare”.
“Come un pazzo”, si disse.
Incredibilmente cominciò a sentirsi meglio.
Non andò molto bene.
Il calcetto si era concluso con un bilancio indeciso e grigiastro che non lasciava soddisfatto nessuno. L’ultima palla era finita fuori dal campo ed era misteriosamente scomparsa. Nessuno era disposto a pagare 50 centesimi per una sola pallina, e così si era dichiarata patta.
Di colpo, inspiegabilmente, tutti avevano trovato noiosa questa storia del calcetto. Un po’ triste, anche. Un po’ patetica, anche.
Restava soltanto la cenere. Lasciarono tutti il locale, a coppie di due o di tre, o soli. Andavano tutti in direzioni diverse. Se andavano nella stessa direzione camminavano a dieci passi di distanza. Tutti avevano altri amici da incontrare, gente che non aveva mai giocato a calcetto prima di allora e che non l’avrebbe mai fatto dopo.
Vladimir era come loro, un frammento della stessa delusione.
“Come un pazzo”, si disse, incamminandosi verso via Petroni.
Due ore dopo era seduto sui gradini di San Petronio che fumava una sigaretta. Non era andata per niente bene. Niente andava bene. Se possibile faceva ancora più freddo di prima. Bologna era ancora più deserta. La gente che aveva incontrato aveva una faccia strana, sembrava altrove. Erano corpi gettati lì in mezzo senza un motivo preciso.
Si era fermato e non avrebbe dovuto. Ripartire era impossibile, ormai.
Al secondo tiro di sigaretta si accorse che non aveva voglia di fumare. Poi si accorse che il rumore nella sua testa si era fatto assordante. Si accorse che quella città era piena di sconosciuti. Bologna era sconosciuta e ostile e qualcosa stava per succedere. Al di là di qualsiasi ragionevole dubbio.
Decise di tornare a casa. Infilarsi sotto le coperte e dormire. Soffocare l’omino e tutte le sue parole idiote in un oceano di subconscio, farsi una sega colossale ed eiaculare tutto quel terrore sulle lenzuola. Fino a domani. Poi ci avrebbe pensato domani.
Arrivò all’appartamento di Porta San Donato che non era nemmeno l’una. Nonostante ciò tutti e tre i suoi inquilini dormivano. Le luci erano spente. Non c’era nemmeno un rumore, o lui non lo sentiva.
Andò direttamente in camera sua, si spogliò, buttò i vestiti a terra accanto al letto e si avvolse nelle coperte come nell’utero di una grossa madre fatta di lana.
Chiuse gli occhi e si addormentò all’istante.
E fece un sogno.
Prima vide una macchia bianca di materiale gelatinoso. Poi questa macchia prese forma umana, diventò un bambino e poi un piccolo uomo. Un uomo molto piccolo che Vladimir conosceva da quando era nato.
Lo riconobbe senza esitazioni: era rimasto nel suo cervello tutti questi anni, ora finalmente lo vedeva.
L’omino cominciò a parlare.
Vladimir fu avvolto da un tepore indefinibile, e per la prima volta tutto ebbe significato.
Parentesi
millenovecentoottantasei – duemilatre
“1985-2000: quindici anni di solitudine”. Avrebbero potuto intitolare così un romanzo ispirato al loro passato prossimo. Solitudine. E disillusione. E crolli, tutto intorno a loro sembrava crollare giorno dopo giorno. Non era forse crollata anche l’Unione Sovietica? Qualcuno, ogni tanto, riusciva a stupirsi di essere ancora in piedi, ma niente di più.
Tra il 1986 e il 2003 la piccola tribù degli adulti aveva finito per detribalizzarsi. I compagni di partito erano diventati manager di successo, avvocati, banchieri, medici. Vivek era un ricordo sconveniente, poco più che un aneddoto colorito. Hediegger non lo conosceva più nessuno. Marx era un povero visionario, ormai lo sapevano anche i bambini.
Insomma il mondo cambiava. Inventava parole sempre nuove che per loro non avevano nessun significato. “Reagonomics”. “Gentrification”. “Glocalizzazione”.
Parole parole parole.
Le cose si erano fatte molto diverse da come le ricordavano. A sentire la tv tutti erano stati hippy almeno una volta nella vita. Non esisteva un solo stronzo che non avesse fatto il 68, il 77, che non avesse conosciuto Curcio di persona per le vie di Trento.
(E i ragazzini fumavano haschisch importata dal Marocco nelle piazze dei paesi, mentre tu che avevi visto nelle droghe una critica al sistema borghese cominciavi a sentirti un vecchio parassita idealista.)
(C’era stata l’esplosione dell’AIDS, la campagna pubblicitaria contro l’eroina, le rubriche televisive contro le droghe sintetiche: chi eri tu per dire la tua? Cosa ne sapevi di come andava il mondo, di com’era sempre andato?)
(Una volta lo chiamavi “sballo” e adesso il termine “sballo” era irrimediabilmente passato di moda. Ti sentivi passato di moda e non capivi come potesse essere successo.)
E poi c’erano i tuoi figli. L’adolescenza dei tuoi figli ti aveva messo di fronte a problematiche inedite. È giusto incidersi gli avambracci con una lametta da barba? Se porti t-shirt inneggianti a satana non sei forse un satanista? La musica è musica anche se non rimane più un solo cazzo di strumento musicale?
Dalla disco music dei tuoi vent’anni (ma la decadenza era già iniziata, ora lo riconosci) si era passati alle stragi fasciste dei trenta. Discount alimentari e reti televisive private si erano diffuse a macchia d’olio in tutto il paese. Gli anni 90 erano stati la fine di tutto (quarant’anni di fede politica, speranza in un futuro migliore, tutto).
Qualcuno era scappato in India per non fare i conti con tutto questo.
Chi era rimasto non sapeva più a che santo votarsi, e finiva irrimediabilmente per comprarsi il televisore al plasma.
Insomma era un gran casino, irrimediabilmente, inequivocabilmente un gran casino.
Martine.
Martine aveva cercato di rifarsi una vita in provincia. Aveva osannato l’aria pulita e la gente vera e l’odore dei campi d’agosto.
Una mattina di aprile del 1988 aveva avuto una crisi di nervi e avevano dovuto ricoverarla all’ospedale più vicino, imbottita di Xanax. L’ospedale era piccolo e straripante di malati terminali. Le infermiere avevano l’aria di essere lì per caso. L’odore di cloroformio dava il mal di testa.
Dopo tre giorni di degenza Martine aveva preso suo figlio in braccio ed era salita su un treno per Milano. Aveva rivisto i vecchi amici e aveva messo in atto processi di rimozione degni di un bambino autistico: non era mai Fuggita Dalla Metropoli, non era mai stata a Vivek, non sapeva niente di niente.
Aveva trovato un monolocale in via Sarpi, nel cuore della futura Chinatown, e aveva educato suo figlio alla vita di città. Milano ghiacciata nell’inverno dell’89 sorrideva come lo Stregatto di Alice, ma non importava, niente in fondo aveva importanza.
Finalmente, dopo mille anni di viaggi nel tempo, era tornata a casa.
Jens.
Il tedesco che leggeva Heidegger aveva smesso di leggere Heidegger. Era tornato in Germania e si era innamorato di una pasticciera di Monaco. Aveva mollato moglie e figlie ed era scappato con la pasticciera verso Nord, dalle parti di Colonia.
Quando la pasticcera lo lasciò per un camionista, Jens si ritirò in esilio nella Foresta Nera. Si mise ad intagliare statuette nel legno d’abete e ricominciò a leggere Heidegger.
Nel 1999, a 49 anni, si prese un cancro ai polmoni e morì.
Felice, a quanto pare, certamente solo.
Lo zio di Vladimir.
Il professore buddista era probabilmente l’unico essere umano al mondo, nel 1989, a conoscere l’urdu come l’italiano: proseguì i suoi studi e finì per ottenere la cattedra di Orientalistica all’università di Bologna.
Cominciò a vivere sei mesi nel capoluogo emiliano e sei mesi in un piccolo paese della provincia di Bombay, dove aveva moglie e figli. (A Bologna aveva una compagna con la quale però non conviveva, e che non poteva avere bambini).
Non smise di fumare erba ma smise di combattere il sistema capitalista.
Non abbandonò le pratiche zen di purificazione del corpo ma si concesse di mangiare tortellini al ragù tre volte la settimana.
Insomma raggiunse un compromesso soddisfacente, e riuscì ad attraversare il collasso dell’Occidente senza troppi traumi.
Il padre di Vladimir.
Il padre di Vladimir era diventato professore di filosofia in un liceo di provincia. I corridoi e le aule del liceo erano scarne come un haiku, o più prosaicamente come il cesso di una stazione. Gli allievi erano figure sinistre ma innocue: piccoli punk in ritardo sul tempo, ragazzine anoressiche, giovani rivoluzionari capelloni, checche.
Come dire: ombre ombre ombre.
A cui della filosofia importava meno di zero: soltanto l’ennesimo viaggio allucinato in una realtà che stava diventando più allucinata di qualsiasi speculazione.
Per il resto aveva trovato alcuni hobby interessanti a cui dedicarsi (le passeggiate in montagna, la pittura su legno) e viveva più o meno serenamente la crisi di mezza età sua e del suo continente.
La madre di Vladimir.
Sua moglie si era laureata in psicologia alla veneranda età di 31 anni, ed era finita a fare l’insegnante di sostegno alle scuole medie. Qui le ombre erano più grumose, più informi, e sempre sul punto di esplodere in mille pezzi.
Passava quattro ore al giorno a contatto con i piccoli mutanti dell’Occidente in declino: autistici, baby-paranoici, teppistelli, sessuomani precoci.
Finite le quattro ore si apriva una voragine di supermercati, poste, banche.
Scenate adolescenziali di suo figlio ateo, che francamente a tredici anni era stufo marcio di chiamarsi Vladimir e voleva fare il cantante in un gruppo rock, il tossicodipendente, il marchettaro, persino l’astronauta purché non si parlasse di comunismo.
(D’altra parte lo slancio politico che aveva portato la coppia ad affibbiargli quel nome si era esaurito con tangentopoli, e un’intera vita di ripensamento dell’Istituzione Famiglia aveva prodotto frutti piuttosto malsani.
Vladimir aveva ragione a urlare, ragione a fumarsi le canne nel garage alle dieci di mattina della domenica, ragione nel suo tentativo disperato di mettere incinta una ragazzina minorenne.
Era successo quello che succedeva a tutte le famiglie della sinistra liberale cresciute negli anni 70: si sentivano in colpa per essere diventati quello che erano.)
I bambini.
Alina, la figlia maggiore di Jens, che nel 1986 aveva 7 anni, diventò molto bella e vuota come una noce di cocco. Riuscì a prendere il diploma in ragioneria e nel 2002 andò a convivere con un dj techno che le regalava l’MD e altre porcherie chimiche. Nel 2003 lei e il dj si lasciarono, e Alina tornò a vivere a casa della madre.
Katrin, la seconda figlia di Jens, che nell’86 di anni ne aveva 4, non fece mai uso di droghe. Si diplomò brillantemente al liceo classico e andò a studiare filosofia a Berlino. Nel 2003, a 21 anni, non aveva mai avuto un ragazzo.
Matteo, il figlio di Martine, diventò un normale adolescente milanese, fissato con l’hip-hop, i graffiti e i videogiochi violenti. Nel 2003 aveva 20 anni ed era disoccupato, annoiato, indeciso sulla piega che avrebbe preso la sua vita futura.
(Il mondo insomma non si era fermato: un fatto che in futuro si sarebbe rivelato molto doloroso.
Gli adulti si ritrovavano stanchi, confusi, raffazzonati.
I bambini erano diventati adulti senza averlo chiesto.
Tutto, ancora una volta, andava esattamente come doveva andare.)
4.
primavera
L’impressione era quella di palle da biliardo lanciate ai quattro angoli del tavolo: nessuna buca, soltanto rumore secco di neuroni impazziti che cozzano tra di loro.
L’estate del 1986 (la partenza di Guido) era stata l’ultima delle loro vite, il punto di sutura che aveva irrimediabilmente chiuso un’epoca.
Tutto d’altra parte sembrava troppo labile, troppo mutevole. Per quale motivo invecchiare e morire doveva essere una necessità? Perché i figli dovevano crescere? Cos’era poi questa storia della guerra al terrorismo?
Così pensava il padre di Vladimir quando, un pomeriggio di marzo del 2003, il telefono degli anni 60 squillò per la quarta volta.
***
Il telefono.
La vita del telefono nero degli anni 60 è strettamente intrecciata alla vita di Martine: tutto inizia una notte di luglio del 1963, quando sua madre incontra un uomo in una bettola per alcolisti e decide di fuggire con lui in capo al mondo.
Quest’uomo (tale Alberto) è un piccolo malavitoso milanese che traffica merci rubate al confine con la Francia. La madre di Martine è una bella casalinga insoddisfatta delle prestazioni sessuali del marito.
L’amore, almeno potenzialmente, sembra qualcosa di scontato.
Prima di lasciare per sempre consorte e terra natale la casalinga fuggitiva prende con sé due cose: la figlia bionda di tre anni (che viene così condannata ad uno sciatto monolinguismo) e il telefono di casa (un oggetto che ha pagato molto e al quale di conseguenza si sente particolarmente affezionata).
Poi Milano. Un appartamento nel quartiere allora popolare dei Navigli. Qualche mese di felicità relativa (alcolica, più che altro) e infine un’altra fuga: Alberto, questa volta, con una ballerina di night club.
Una donna sola con una bambina piccola in una città molto grossa. Che non è “in capo al mondo”, neanche un po’.
E poi uomini uomini uomini. Tutti che la tradiscono. Il destino della figlia inscritto nell’altalenante vita sessuale della madre.
Irrimediabilmente.
Nel frattempo passano gli anni. Il telefono è sempre lì, appoggiato su una mensola nell’ingresso dell’appartamento.
È lì nel 1979, quando Martine, 19 anni, se ne va a Vivek per unirsi agli arancioni. È lì nel 1982, quando sua madre, 47 anni, muore di ictus cerebrale (dagnosi: due pacchetti di esportazione al giorno). È lì quando un ladro di verginità travestito da hippy mette incinta Martine, per poi scomparire nel nulla non appena il ventre di lei comincia a gonfiarsi.
Continua ad essere lì quando Vivek viene chiusa, nei primi mesi del 1986, e Martine e figlio decidono che la new age è finita ed è ora di cominciare a vivere sul serio.
È indubbiamente lui a squillare quando, quell’estate, Martine riceve la telefonata di un amico tedesco (tale Jens) che le propone tre mesi di permanenza in una baita wlser di amici italiani, a pochi chilometri da Milano.
Inebriata dalla prospettiva di un nuovo inizio, Martine compie il movimento inverso e speculare a quello di sua madre: dalla città parte per la provincia, portandosi dietro (senza sapere perché) figlio e telefono.
Durante la breve parentesi della baita walser, il telefono veicola due importanti epifanie: una per Guido (telefonata di Emy, partenza), una per gli altri adulti (telefonata di Emy, scomparsa di Guido, fine tardiva dell’adolescenza).
Per tutto l’inverno resta muto, e l’estate successiva, quella del 1987, si limita alla routine: telefonate di madri, padri, amici, parenti, colleghi, datori di lavoro.
Poi di nuovo Martine. Che nell’aprile del 1988 ha la sua piccola crisi di nervi (capisce che la provincia è soltanto l’ennesima fuga della sua vita) e decide di tornare a Milano. E decidere di tornare a Milano e sbarazzarsi per sempre di quel telefono è tutt’uno (nessuno capisce esattamente come mai, ma tant’è: il mondo è pieno di misteri). E così accade.
Un’ora prima di salire sul treno Martine porta il telefono ai genitori di Vladimir. Li ringrazia per l’ospitalità e l’amicizia. Chiede di conservare per lei quell’oggetto.
I genitori di Vladimir ringraziano, sorridono e lasciano il telefono sulla cassapanca in corridoio per sette mesi. Dopodichè la madre di Vladimir lo infila in una scatola di scarpe. Lo porta in cantina.
Lo infila in un armadio e chiude la porta a chiave.
***
Vide la luce per l’ultima volta a dicembre del 1988. Poi, per quasi 15 anni, tutti si scordarono di lui.
Una domenica di marzo del 2003 il padre di Vladimir scese in cantina a cercare un martello. (Stava inchiodando alla parete della sala da pranzo un piccolo quadro astratto che aveva appena finito di dipingere: ecco perché il martello.) Si mise a rovistare negli armadi e il telefono quasi gli cadde in testa.
Fu un’ulteriore epifania, un’ulteriore prova delle capacità magiche di quell’oggetto: gli anni 60 erano morti e sepolti, eppure lui restava lì, nero e lucido, come nuovo.
Non era forse un simbolo? Una condanna al mondo moderno, con la sua sclerosi tecnologica da continua mutazione? Certo che sì: tutto cambiava, quel telefono no. Era sempre uguale a sé stesso, nero lucido e rassicurante.
Condannava l’ex Unione Sovietica per essere ex, condannava le Torri Gemelle per essere implose come castelli di sabbia, condannava l’Iraq per il petrolio e gli Stati Uniti per il petrolio e tutti quanti insieme per aver intrapreso la strada del Male e dell’Autodistruzione.
Il padre di Vladimir pensava queste cose mentre portava il telefono in soggiorno, staccava il Simens cordless comprato tre mesi prima e collegava il vecchio apparecchio alla presa telefonica.
Pensava tutto questo e faceva tutto questo quando il telefono si mise a squillare.
Rimase a guardarlo un attimo.
Pensò: “Questo coso appena lo attacchi suona”. (Un po’ del suo rispetto era scomparso. Era aumentata la perplessità e anche il timore per le sue capacità magiche.)
(Pensò all’ultima volta che quel telefono aveva squillato significativamente. Pensò a Guido. Per un secondo sentì con incredibile chiarezza l’accavallarsi dei tempi, la relatività degli spazi, il susseguirsi delle stagioni. Sentì il tempo scorrere a velocità folle intorno a lui. Sentì di precipitare in un baratro senza fondo, ma senza angoscia, senza paura.
Si lasciava cadere nella voragine più profonda del mondo con tranquillità, come una foglia secca si lascia cadere da un albero.)
Poi rispose.
Era Vladimir. Poi ci fu un’interferenza. La voce di Vladimir ritornò, ma distorta, come filtrata attraverso un sintetizzatore.
(C’erano fruscii che sembravano venire da un altro mondo. Respiri e gemiti e mormorii che potevano essere la colonna sonora del limbo, della terra di mezzo, della zona del crepuscolo.)
“Papà”, disse Vladimir con quella voce distorta. “Papà mi senti?”
Disse che era in un luogo rumoroso e incasinato. Che non aveva molto tempo. Che aveva voluto telefonare a casa per salutarli.
Salutare? Perché salutare?
Perché stava partendo. Per dove? Non lo sapeva. Quando sarebbe tornato? Non lo sapeva.
Non sapeva niente, chiedeva soltanto di accettarlo. Doveva partire per forza. In quel preciso istante, non poteva aspettare un secondo di più. Se ne stava andando, ma sarebbe tornato. Per raccontare a tutti loro quello che aveva visto.
(“Sono successe delle cose. Ho solo bisogno di riflettere. Vi prometto che un giorno vi telefonerò e allora ci rivedremo e vi racconterò tutto “)
Poteva accettarlo? Davvero poteva accettarlo? Così su due piedi, per la seconda volta, anche se adesso si trattava di suo figlio?
Ci mise molto a rispondere.
“Sì”, disse alla fine. “Credo di sì”.
Vladimir disse: “Grazie”. Disse: “Ti ringrazio, sul serio”. Disse ancora: “Adesso devo andare”. Disse qualcos’altro che si perse in quel rumore indefinibile.
E appese.
5.
inverno
Era gennaio quando l’omino aveva parlato. Era emerso da una chiazza lattea di materiale gelatinoso e aveva raccontato la sua storia.
Vladimir aveva dormito. Come mai prima d’allora. Un sonno totale, senza sogni e senza incubi.
Un sonno violaceo e ronzante che assomigliava molto alla morte.
Poi si era svegliato. Aveva aperto le finestre su via San Donato e aveva guardato Bologna intirizzita, con il pelo coperto di ghiaccio e la bava alla bocca. Per la prima volta aveva visto chiaramente l’accavallarsi dei tempi. Le epoche storiche si sovrapponevano. Una volta c’era il mare, lì sotto. Un giorno non ci sarebbe stato più nulla, soltanto un vuoto cosmico.
E poi c’erano gli esseri umani. Piccole figure che mutavano in continuazione. I vecchi diventavano bambini, e viceversa. Le donne sfiorivano.
Le case si trasformavano in cumuli di macerie e dall’asfalto crescevano campi di grano.
Tutto si sgretolava e si ricostruiva a velocità supersonica. Il ragazzo dello spazio era lì per vedere e comprendere. Il 77 era evaporato, come il 1253, il 2003, il 2580. I Television non avevano più niente da cantare, nient’altro se non la loro natura effimera di esseri umani.
Quello che cantavano tutti i cantanti, l’unico argomento di conversazione del mondo, l’unico significato di tutti i libri e gli amori e le altre cose splendide e tragiche della vita.
Vladimir fu colto da una sensazione indefinibile: gli opposti si mischiavano come mai prima d’allora, erano un’unica grande cosa, la sola che avesse ancora importanza.
“Luna padiglione”. Che voleva dire?
Tutto o niente, in fin dei conti faceva lo stesso.
Per più di due mesi non uscì di casa. Aveva bisogno di riflettere, e doveva stare solo.
Era diventato una specie di eroe dei fumetti? Se aveva acquisito dei superpoteri tanto meglio: adesso doveva imparare ad usarli. E comunque non era molto facile interagire con la gente. Andare dal macellaio per vedere uno scheletro che affettava suini e ovini ancora vivi, grufolanti e belanti.
(Questo è interessante: niente nella sua vita era mai stato così simile ai suoi giochi d’infanzia. Non era mai arrivato così vicino alla comprensione come in quelle ore d’attesa, nascosto in un campo di mirtilli, concentrato nel suo amore per una principessa rapita.
Una principessa che non esisteva, rapita da un nemico che non esisteva: era l’invenzione la chiave di tutto.)
Due mesi di solitudine quasi totale, fino al 17 di marzo.
Fino a quel momento fece finta di essere impazzito, per non turbare troppo inquilini e amici. La follia era qualcosa di comprensibile, soprattutto a Bologna. La gente impazziva ovunque, in ogni momento.
Gli inquilini e gli amici d’altra parte cercarono di capire, o almeno apprezzarono la sua buona volontà. Andarono a comprargli latte e sigarette. Gli portarono riviste di musica e organizzarono piccoli concerti acustici nella sua stanza.
Lui lasciava fare.
Percepiva la loro morte e gioiva per il semplice fatto di sentirli respirare accanto a sé.
La mattina del 17 marzo si svegliò con qualcosa che gli batteva in testa. Un’urgenza assoluta di fare qualcosa. Che cosa? Non ne aveva la minima idea.
Prima di tutto pensò ad un bisogno corporale. Provò a pisciare, ma non gli scappava. Provò a farsi una sega, ma non riuscì nemmeno a farselo venire duro.
(E pensò una cosa: da due mesi a quella parte si era praticamente scordato di avere qualcosa in mezzo alle gambe. Non si era mai masturbato, non aveva mai pensato nemmeno lontanamente di uscire a cercare una ragazza. La cosa era parecchio strana e meritava un’attenta riflessione. Quantomeno dimostrava che aveva effettivamente dei superpoteri – o qualcosa di molto simile – e che era ancora lontano anni luce dal capire come usarli).
Per tutto il giorno restò chiuso in camera. Girava in tondo. Camminava sui suoi passi.
Si sentiva un giovane padre nella sala d’aspetto del reparto maternità. Aspettava di abbracciare quel coso viscido e scalciante che era appena diventato suo figlio, solo che c’era una differenza: in questo caso era lui a dover partorire.
(Che cosa esattamente fosse sul punto di partorire non gli era ben chiaro. Pensò tutto questo e fu terrorizzato dal paragone. Non è che forse era impazzito sul serio? Una buona domanda a cui era meglio non tentare di rispondere.)
Poi, verso le quattro di pomeriggio, capì. Fu la cosa più simile ad un orgasmo che gli fosse mai capitata. E la cosa fantastica era che il sesso non c’entrava un accidenti di niente. Non c’era niente di più lontano dal sesso che quella sensazione di liberazione.
Si vestì in trenta secondi netti. Infilò in un piccolo zaino le cose utili per il viaggio. Poi si rese conto che per quel tipo di viaggio niente sarebbe stato davvero utile. Disfò lo zaino e lasciò i vestiti ammucchiati per terra.
Si infilò il cappotto e uscì in strada, quasi correndo.
Dieci minuti dopo era in stazione, che prendeva fiato seduto su una panchina di marmo accanto al binario 1.
Guardava i treni andare e venire. Trasformarsi in pezzi non ancora assemblati e in vecchie carcasse arrugginite. Vedeva la stazione quando al posto della stazione c’era un enorme prato battuto dal vento.
Accese una sigaretta. La fumò fino al filtro. La spense.
Era tutto pronto, il suo Grande Viaggio stava per cominciare. Mancava soltanto una cosa. Sgradevole, imbarazzante, difficile. Ma necessaria, assolutamente.
Decise di fare tutto d’istinto, senza riflettere.
(“Come un pazzo”, diceva una piccola voce flebile nella sua testa.)
Compose il numero sulla tastiera del cellulare. Attese. Uno squillo, due squilli, tre squilli. Attese ancora. Quattro squilli, cinque squilli. Qualcuno dall’altra parte della linea alzò il ricevitore.
“Papà”, disse. La voce di suo padre era disturbata da un’interferenza. Il rumore della stazione (tutto il rumore che aveva in testa) copriva il debole impulso elettromagnetico. “Papà”, disse di nuovo.
Disse: “Papà mi senti?”
6 risposte a “crononauta (parte 1 di 4)”
ok questo è qualcosa di nuovo.
c’è solo la prima parte perchè verrà una cosa abbastanza lunga e non potevo postarla tutta assieme.
(giorgio, se capitassi di nuovo da queste parti: ho provato a fare come dicevi, a togliermi di dosso un po’ di minimalismo… che te ne pare?)
be’, spero che qualcuno legga e commenti…
prime impressioni a caldo:
La lettera di Guido mi incuriosisce parecchio, riaccende il sorriso;
Fin qui, mi pare che il racconto proceda intrigante e saltellante, con alti e bassi.
Ah, avevo scritto che mi sarebbe piaciuto leggere qualche tuo racconto più “lungo”? o mi hai letto nel pensiero?
Per ora, non mi appare meno cinefilo ma per lo meno più distante da una sceneggiatura;
sento comunque odore di vita vissuta e mi piace il filo rosso del.. telefono
mi sa che ti ho letto nel pensiero questo giro 🙂
sì sto cercando di fare qualcosa di più “narrativo” nel senso vero del termine… qualcosa di un po’ più generoso e meno minimale, che cerchi di coinvolgere un po’ di più il lettore.
e per quanto riguarda i fili rossi (non solo il telefono) sono ciò che tiene insieme il tutto… (finora secondo me ci riesce abbastanza, per quanto riguarda il prosecuo mi sa che dovrò lavorarci ancora un po’…)
ho letto a pezzi, saltando un po’ qui e un po’ là. so che è sbagliato e sciocco, ma non chiedermi perchè. forse perchè ho gli occhi sputtanati e li sto curando con dosi violente di cortisone.
quindi della storia non so dirti niente.
so dirti qualcosa dello stile e di come imposti le frasi. e mi sembra che tu abbia davvero un gran talento. continua così.
Mutamento 0 crescita?
Per scelta o per prova?
Finalmente qualcosa di meno angosciante del solito. Sei riuscito anch a farmi sorridere..
Sicuramente meno minimalista come dici tu e più narrativo, più comprensibile anche per noi non più “giovanissimi”.
Comunque , sia in questo che nei racconti precedenti c’è sempre molta “sceneggiatura” fra le tue righe (magari questa volta non per un corto!). Riesci sempre a farmi “VEDERE” i tuoi personaggi, i tuoi luoghi, cosa che non succede spesso con le parole scritte.
Però sei un po’ sadico nel lasciare i tuoi fedeli lettori così in sospeso con una telefonta….e poi???
Ah dimenticavo la PARENTESI (per stare in argomento cinefilo) non starebbe bene alla fine ?
Ciao a …fra pochi giorni!!!
iaia!
vedi che ti rispondo piccola cara? tanto brava a scrivermi sul blog una volta tanto…
scemenze a parte.
mutamento E cresscita, nè per scelta nè per prova ma per DESTINO.
comunque sì, un po’ meno minimalista perchè stavo diventado asettico, e quindi più comprensibilie un po’ per tutti…
(…una volta tanto l’età non conta, sai…)
… e in quanto al sadismo… sarò un po’ sadico, ma almeno vi costringo a tornare per vedere come va a finire! 🙂
comunque la seconda parte (molto breve in realtà) arriverà in questi giorni.
TORNA, OK???
baci