giovane artista cercasi

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“Perché vivi?”
“Non lo so.”

(Neon Genesis Evangelion, ultima puntata)

0.

Io e B ci siamo sempre conosciuti.
Solo che fino a qualche anno fa lo odiavo.
Questione di compagnie rivali.

1999. Ho quindici anni. Giro al parco. Indosso jeans strappati. Ascolto i Sex Pistols e gli Sham 69.
Aspettiamo l’apocalisse.
Ci infiliamo sottoterra come insetti.
Notti alla stazione. Feste. Amplificatori. Sudore.
Poi muore Francesca, e finisce tutto.

Due anni dopo sono in Irlanda in viaggio studio.
C’è anche B. Case diverse. Zone diverse della città. L’epoca del punk è finita. Ora ascolto Ziggy. Indosso giacche di pelle. Occhiali scuri.
Sono i giorni del G8 a Genova. Il ritorno del movimento sugli schermi televisivi. Carlo Giuliani. I no global. I black block.
E la scuola Diaz. Se Francesca fosse stata ancora viva, sarebbe stata là.
Non posso fare a meno di pensarlo.
Poi ne parlo con B, in mensa. Un giorno come un altro. Fuori piove a dirotto. B sta solo con il suo pranzo.
Vado a sedermi con lui. Cominciamo a parlare. Scopro che anche lui conosceva Francesca.

Estate del 2005. 11 giugno.
Sono a casa di B, svaccato sul divano. Le imposte chiuse. La televisione accesa su Mtv, volume a zero. Nello stereo ci sono i Sonic Youth.
Fuori fa un caldo anormale.
Spengo la tv. Mi alzo. Accendo una sigaretta. Apro le imposte e mi appoggio al cornicione della finestra.
“Oggi sono cinque anni che Fra è morta”, dico.
B smette di dipingere e mi guarda.
“Cinque anni”, riprendo. “Non ho ancora capito perché l’ha fatto”.
“Che cosa”, dice B.
“Ammazzarsi. Eravamo dei bambini, in fondo”.

1.

Estate del 2005.
Passavo i pomeriggi a casa di B. Fuori l’aria era rovente. Senza vento. Un’ondata di caldo anomala, che stava accelerando lo scioglimento dei poli.
B era diventato un pittore.
Aveva sempre dipinto, ma io non lo sapevo. Adesso il suo nome cominciava a girare sulle bocche dei galleristi. A Milano, a Torino.

Dipingeva in cantina.
La cantina: una grossa sala e una taverna. Nella taverna c’era un divano. Una televisione e un videoregistratore. La filmografia completa di Lucio Fulci.
Un piccolo stereo che risaliva agli ultimi anni del Novecento.
Ero io a portare i cd che ascoltavamo.
I Sonic Youth, praticamente.

Estate del 2005, un periodo strano, per me.
Da mesi non vedevo e non sentivo mio padre.
Mio padre è un ingegnere. I miei hanno divorziato quando io avevo due anni. Mio padre è andato a vivere in Francia.
Lavora ad un progetto finanziato dalle Nazioni Unite. Non so che ruolo ricopra. Non so nulla del progetto.
Top secret.
Qualcosa che ha a che fare con gli embrioni. Con l’applicazione degli embrioni umani nell’industria bellica.
Non so altro.

Uscivamo verso sera.
Avevamo due o tre locali di riferimento. Posti per incontrare gente. Farsi una birra.
Però B era nervoso. Stava lavorando ad una mostra. Era in ritardo con i tempi. Il gallerista che gliel’aveva commissionata era importante e intransigente.
Una grande occasione.
Ma niente stronzate.
Io cercavo di tenerlo allegro. Proponevo uscite improbabili e bagni al lago. Di solito non ci riuscivo. Però a volte succedevano cose divertenti.
In quei momenti lo sentivo.
Qualcosa ci univa.
Non sapevo cosa.

0.

Coleman Singer: un nome capace di zittire le discussioni nei bar. Un nome circondato da un alone magico.
Nato a Brooklin nel 1928. Direttore esecutivo della Luff, una delle più grandi multinazionali del settore siderurgico.
Nel 1969 si sposa con Elisabetta C., una bella ereditiera di Milano.
Nel 1971 lascia la direzione della Luff e si trasferisce con la moglie in Italia, sul lago d’Orta.

La prima svolta nella vita di Singer: il collezionismo d’arte.
Dal 1971 in poi non si dedica ad altro.
In pochi anni crea una delle più importanti gallerie private italiane. Una galleria da sogno, costruita nei sotterranei della villa sul lago.
Una galleria avvolta dal mistero.
Accesso vietato a tutte le persone non autorizzate.
Cioè: Singer, la moglie, gli artisti.
Qualche gallerista. I migliori. I più ricchi. I più potenti.

Trent’anni.
11 settembre 2001: seconda svolta.
Il suo sentimento nazionalista è ferito. Comincia a sentire il richiamo della bandiera a stelle e strisce.
Prende la decisione. Tutti i proventi ricavati dall’arte avranno un’unica destinazione: la ricerca scientifica a fini bellici.
Proteggere l’Occidente dalla minaccia islamica.
Una priorità assoluta.

Dal 2002 è uno dei principali finanziatori del progetto Total Freedom.
Total Freedom: un progetto approvato e sostenuto dalle Nazioni Unite. Prevede la sperimentazione sull’embrione umano a fini bellici.
La creazione della prima arma umana della storia.
Centinaia di tecnici coinvolti in tutto il mondo.
Tre sedi operative, tutte situate nel cuore di basi militari della Nato: una negli Usa, una in Francia, una in Georgia.

2005.
Il progetto Total Freedom procede.
Nella sua villa di Orta, Singer continua a dedicarsi all’arte.
Colleziona quadri di artisti famosi.
Inaugura collezioni di giovani artisti promettenti.

2.

Coleman Singer.
Si raccontava di tutto su di lui. La grande villa sul lago nella quale abitava era fonte inesauribile di storie fantastiche.
Mitopoiesi della provincia.
Si diceva che avesse ucciso suo figlio. Che ne avesse trafugato il cadavere. La polizia aveva chiuso un occhio. Non aveva nemmeno aperto un’indagine.
In effetti Singer non aveva mai avuto figli.
Storie di paese.
Nient’altro che leggende.

B lavorava per Singer.
Venni a saperlo un pomeriggio qualsiasi. Il solito caldo innaturale. Io e B ce ne stavamo seduti sull’erba, all’ombra di un albero.
Il giardino di B: un quadrato di verde circondato dal cemento.
Intorno: la ferrovia, una chiesa sconsacrata, la collina.
Aspettai di avere la canna tra le dita. Diedi un tiro. Espirai guardando il sole. Pallido. Avvolto in una foschia che sembrava salire dall’asfalto.
“Che tipo è”, chiesi.
“Un vecchio”. B sembrò pensarci su un po’. “Un vecchio fascista del cazzo”.
Calo di pressione. Voglia di qualcosa di fresco. Una bibita.
“Sono vere le storie che si raccontano su di lui?”
B scosse la testa.
“E’ solo un vecchio”, disse.

Poi me lo chiese.
Disse: “Domani vado in villa a portare dei quadri”.
Era sera. Stavamo giocando a basket sull’asfalto del cortile. C’era un vecchio canestro fissato al muro della cantina.
“Se vuoi puoi accompagnarmi”.
“Non lo so”, risposi. “Posso vedere la galleria?”
Punto. Sedici a nove per lui.
“No”, disse, raccogliendo la palla. “Puoi solo accompagnarmi”.

3.

Cielo grigio, di colpo. Minaccia di pioggia.
Sedevo sulla vecchia alfa di B. Eravamo diretti alla villa. I sedili posteriori erano pieni di quadri, imballati nel polistirolo.
Guidava B, il braccio penzoloni dal finestrino aperto. Indossava una canottiera scura macchiata di vernice bianca.
Io portavo vecchi jeans e una maglietta gialla.
Una strada tutta curve. Sterrata, immersa nella collina. Andava stringendosi di metro in metro. Boscaglia. Canneti.
Il lago, di sotto, uno specchio.

Una strada che sembrava infinita.
Accostammo in uno slargo, accanto ad una costruzione diroccata.
“Da qui si va a piedi”, disse B.
Cielo grigio. Afa. Tutto intorno era immobile. La radio accesa mandava un vecchio successo di Madonna.

Un cancello di ferro battuto. Un giardino. Una casa.
Niente di eccezionale: una normalissima villa.
Niente di cui stupirsi.

Mezzora dopo ero rimasto solo. Sedevo su una panchina.
Mi trovavo nel giardino di villa Singer. Il cuore della mitologia locale. I cancelli della fortezza inespugnabile si erano aperti.
Nessuna emozione.
B era scomparso. Inghiottito da una scala a chiocciola che portava chissà dove.
La galleria, è ovvio.
La moglie di Singer sedeva a pochi metri da me. Sorseggiava un cocktail coloratissimo, riparata dall’ombra di un gazebo.
Con lei c’era una donna.
Due donne. Colori. La moglie di Singer indossava un abito rosso. Capelli color paglia. L’altra donna era magra come un’ombra. Aveva i capelli di un blu elettrico.
La chioma azzurra si voltò a guardarmi.
Fu un secondo.

Stavamo tornando alla macchina.
Passi lunghi. In silenzio.
Una Mercedes scura ci passò a fianco. B si voltò. L’auto si fermò davanti ai cancelli della villa. I cancelli si aprirono.
B disse: “Aspetta un attimo”.

Stavano entrambi davanti al cancello.
L’uomo alto si chinava per parlare con B. Aveva capelli di un bianco niveo. Risaltavano contro il nero intenso dell’auto.
B teneva lo sguardo fisso a terra.
Singer teneva B per il braccio destro. Un gesto d’affetto. Una morsa che non ti lascia scappare.
Un padre e un figlio.
Singer non sembrava intenzionato a mollare la presa.

0.

11 giugno 2000. Francesca R., sedici anni, viene trovata morta nella sua camera da letto.
Non ha optato per la decenza. Non l’ha mai fatto. Nemmeno nell’ultimo momento, appena prima di ammazzarsi.
Niente pillole. Niente gas.
Niente incidente in moto. Volontario, sì, ma ti resta il dubbio.
No.
Ha preso la pistola di suo padre dal cassetto. Si è sparata in bocca.
Una di quelle cose che nessuno vorrebbe mai vedere.

Autunno 1999 – primavera 2000.
L’epoca del parco.
Ogni giorno. Con qualunque clima. Abbiamo una radio che funziona a pile. Cassette dei Derozer.
Creste. Anfibi militari. Furti nei supermercati. Musica Oi!.
Francesca è il nucleo intorno a cui gira la compagnia.
Una ragazza difficile, dicono i genitori.
Una ragazza come tante, pensiamo noi.
Che andrà all’università. Troverà un lavoro decente. Metterà la testa a posto. Avrà dei figli.
Però una ragazza speciale.
Qui tutti la rispettiamo. Di più, le vogliamo bene. Perché anche se ha soltanto un anno più di me, sembra più vecchia.
Ha l’aria di esserci sempre stata, lei.
Poi è un’artista.
Dipinge.
Non ho mai visto un suo quadro, ma pare che abbia un talento particolare. I pittori e i galleristi della zona la tengono sotto osservazione.
Così giovane, solo sedici anni.
Un talento naturale.
Dicono tutti che avrà un futuro, nel mondo dell’arte.

Poi, un giorno d’inverno, Francesca viene da me.
È raggiante.
“Ieri è venuto qualcuno a vedere i miei quadri”, dice.
“Chi”, chiedo io.
Lei sorride.
“Non puoi neanche immaginartelo”.

4.

Il lavoro procedeva. Ma B era sempre più teso. Silenzioso. Aggressivo.
Decine di quadri e di schizzi riempivano le pareti della cantina. Poche settimane alla mostra. L’attesa era palpabile. Elettrica.

Lavorava giorno e notte.
Giorno: imposte chiuse per difenderci dal caldo. Stereo acceso. Tv accesa.
Notte: luci al neon. Imposte aperte.
I grilli.
Anche se sembrava impossibile.

Poi successe una cosa.
Un pomeriggio entrai in cantina. B non c’era. Le luci erano spente. Chiamai. Feci alcuni passi e chiamai di nuovo.
Poi accesi le luci.
Era lì. Al buio, contro una parete. Come uno scarafaggio. Guardava fisso nel vuoto. Appiattito. Come a voler scomparire.
“Che cazzo stai facendo”, chiesi.
Lui mi guardò.

0.

24 agosto 2005. Rassegna stampa.
Georgia: primo esperimento del prototipo TF-01. Test di sincronia con la componente umana parzialmente riusciti.
Risultato soddisfacente.
Il progetto Total Freedom sembra una realtà.
Conferenza stampa dei vertici del Pentagono a Washington D.C.
La prima verità: TF-01 ricalca la mappatura genetica di una forma di vita finora sconosciuta all’essere umano.
Più di una specie animale.
In effetti una minoranza etnica.
Scandalo nell’opinione pubblica. Ma non ci si può fermare. Le proteste vengono sedate. I cortei si disperdono.
Niente di cui stupirsi.

Poi mi dice: “Non mi lasciano fare quello che voglio. Io non dipingo per loro. Loro dicono che hanno capito, ma non sanno niente di me.
Io non voglio essere un’artista.
Io li odio.
Vaffanculo. Li odio. Non hanno capito niente. Non hanno capito niente dei miei quadri. Vaffanculo. Io…”
Piange.
Io l’ascolto piangere.
Ascolto il vento. Il profumo dei fiori. Stanno comparendo le lucciole.
È primavera anche al parco.

Singer chiude il giornale. Si alza dalla poltrona.
Va alla finestra, lentamente.
Uno strapiombo. Sotto solo il lago.
La sua piccola fetta di assoluto.

5.

Il 24 agosto: mancava meno di una settimana alla mostra.
Giorni febbrili.
Alla fine ci eravamo infilati nella strettoia dell’imbuto. Non parlavamo. B dipingeva. Spesso non dipingeva nemmeno. Stava seduto in silenzio.
Pallido. La barba non fatta. La sigaretta sempre accesa.

Giorni in questo modo.
Il cielo grigio non cambiava. Le giornate non avevano più un ordine logico. Senza tempo. Mangiavamo quando ci veniva fame. Dormivamo quando avevamo sonno.
Non uscivamo più di casa.
B dipingeva. Io gli stavo vicino. Io ero la sua spalla.
Poi arrivò il momento.
Il grande giorno.

6.

Era trascorsa una settimana.
Stavamo entrambi seduti sul divano della taverna. Mtv a volume zero. Immagini. Ci passavamo una canna.
Fuori, pioggia.
Pioggia ininterrotta da sette giorni.

La mostra era andata bene.
Un successo. B aveva ottenuto diverse offerte lavorative.
Ad una in particolare era impossibile rinunciare.
Una gallerista di Boston. La possibilità di esporre negli Stati Uniti. Pochi giorni: una settimana per preparare i locali, una settimana di mostra propriamente detta.
Ventidue anni. Due settimane di vacanza e un nome che oltrepassa l’Atlantico.
Impossibile rinunciarvi.

Ci restavano dieci giorni per godere dell’estate. Dopodichè B sarebbe partito. Sarebbe tornato a settembre. Per me tutto sarebbe tornato alla normalità.
Giorni che non scorderò mai.
Giorni densi di presagi. Sono certo che dissi a B qualcosa, in quei giorni.
Ci sentimmo uniti.
In realtà non successe nulla. Tornò il sole. Bagni al lago. Partite a basket. Gelati. Serate in piazza. Lattine di birra. Musica. Facce conosciute.
Poi finì.
Lo accompagnai in aeroporto.
Disse: “Due settimane e torno indietro”.

7.

Poi successe qualcos’altro.
Ero in macchina. Avevo appena lasciato B all’aeroporto. Ero diretto verso casa.
Intenzioni: concludere l’estate dignitosamente. Uscire. Ubriacarmi. Prendere il sole. Magari farmi una scopata.
Ma successe qualcosa.
Pensai a Francesca. Per la prima volta negli ultimi due mesi.
Mi tornò in mente una scena che avevo scordato.
Un pomeriggio d’inverno. Il parco è innevato. Sono seduto sotto la tettoia della biblioteca comunale.
Jeans attillati infilati negli scarponcini. Walkman nelle orecchie. I Rancid.
A questo punto arriva Francesca.
Bruna. Capelli corti, da maschio. Non è bella. Però ha un fascino tutto suo. Anche lei porta i jeans. Indossa un giubbotto da sci. Azzurro.
Si avvicina.
È raggiante.
“Ieri è venuto qualcuno a vedere i miei quadri”, dice.
“Chi”, chiedo io.
Lei sorride.
“Non puoi neanche immaginartelo”.
“Be’, allora dimmelo”, insisto.
“Coleman Singer”, fa lei.

0.

Due settimane dopo. Il giorno del ritorno di B.
Nove del mattino. Aspetto una chiamata. Aspetto che passi da casa mia e suoni il campanello.
Niente.
Cinque del pomeriggio. Ha ricominciato a piovere. Il telefono non squilla.
Nove di sera. Chiamo a casa di B. Risponde sua madre.
“No”, dice. “Sarà un po’ più lunga del previsto. Due o tre giorni ancora”.
“Non ha lasciato un recapito?”, chiedo.
“Facciamo così”, dice sua madre. “Appena torna ti faccio chiamare. Ok?”

Tre settimane da quando B è partito. Continua a piovere. Il telefono non squilla mai.
Silenzio assoluto.
Chiamo di nuovo a casa di sua madre.
“Senti”, dice la donna. “Può essere che questa storia si faccia piuttosto lunga. È inutile che telefoni ogni settimana”.
Il tono è duro. Seccato. Rimango in silenzio.
Sospira. Sento che si sta ammorbidendo. Muscoli facciali che si rilassano.
“Davvero”, dice. “Va tutto bene. Non devi preoccuparti”.

Un mese e una settimana.
Ho deciso che non telefonerò più.
Fuori piove. Oggi ho comprato il giornale. Total Freedom è in prima pagina. Un’intervista a Singer.
Singer: un fascista.
Non posso togliermelo dalla testa.
Singer e Francesca. B è un giovane artista. L’arte si vende. Singer è tra i maggiori finanziatori di Total Freedom. L’arte è parte della distruzione. Francesca è stata distrutta. Francesca si è autodistrutta.
B negli Stati Uniti. Non chiama.
Io lo sapevo.
L’ho sempre saputo.

Due mesi dopo.
Ultimi giorni di ottobre. Fuori piove. Non ha mai smesso.
Sono solo in camera. Solo in casa. Solo nel mondo. Pioggia: sensazione di malinconia. Non mi piace. La mia stanza: sono lo scarafaggio che abita la mia stanza. Non mi piace.
Squilla il telefono.
Alzo.
Rispondo. Lo sapevo. È B. Lo sapevo. Niente di cui stupirsi.
“Dove sei”, chiedo.
“Non lo so”.
Silenzio.
Dall’altra parte del capo: “Ho poco tempo. Devo parlarti”.
Silenzio.
“Vado lontano”.
“Ancora di più?”
Silenzio. Sensazione di denti che cadono. Denti che si sgretolano in bocca. Non puoi parlare. Sputi sangue e frammenti d’osso.
“Non potrò chiamarti da laggiù”
“Dove vai?”, chiedo.
“Non lo so. In una villa. Hanno una villa anche qui”.
Silenzio.
“Non ti preoccupare”.
Poi un’interferenza. La voce diventa metallica. Un ronzio sempre più insistente.
“Tra poco sono a casa”
Una voce non umana.
Che esita. Sembra voler aggiungere qualcosa. Attimi di tensione.
Poi dice: “Ciao”.
Appende.

(photo by Etherhill – flickr.com)

 

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