Televisivamente parlando Game of Thrones deve il suo successo a una miscela riuscita di violenza, sesso, mappe, intrighi e zombie, ma il motivo che la rende davvero interessante è lo scacchiere di interessi familiari contrapposti, il peso del genos sui destini individuali e collettivi: più che scoprire chi sarà alla fine a conquistare i Sette Regni intriga vedere se Tyron riuscirà a individuarsi nonostante il dispotico padre, o se l’ostinazione di Daenerys a vendicare un’offesa che esiste solo nel suo mondo (il padre, a quanto pare, era pazzo e pericoloso) sarà sufficiente a portarla con i suoi draghi al di qua del mare.
Proprio per questo motivo la terza stagione aveva finora deluso così tanto: incagliata in una zona torbida tra la pornografia e lo stuzzicamento degli istinti sadici (il grosso pene di Pod, la scena lesbo dell’evirazione di Theon Greyjoy, la prostituta trafitta dalle frecce di Joffrey) aveva progressivamente perso la sua delicata armonia narrativa, quella meccanica del potere messa in scena così bene dalla sigla di apertura. E proprio per questo la puntata 3×9 ribalta il giudizio e si configura come uno degli episodi più riusciti di tutta la serie.
Alla fine della puntata (ATTENZIONE SPOILER, smettete di leggere se non ci siete ancora arrivati) Robb Stark e la madre Catelyn Tully rimangono vittime di un’imboscata tesa da Walder Frey alle Torri Gemelle. La scena del massacro viene preparata nel corso di tutta la puntata dal susseguirsi sempre più insistito di segnali (la scoperta del metamorfismo di Bran, l’abbandono di Ygritte da parte di Jon Snow, le battute di Frey alla moglie di Robb, l’allegria dei commensali alla cena) e si consuma con un realismo che ne acuisce l’estrema violenza: le pugnalate al ventre gravido di Jayne, la voce impastata con cui Catelyn pronuncia le ultime parole, la rapidità del gesto che le taglia la gola, persino l’uccisione del metalupo. Era dalla fine della prima stagione, quando Ned viene decapitato ad Approdo del Re, che gli Stark non subiscono un lutto così grave, ed era sempre da quel momento che le vicende non subivano una svolta narrativa così importante (di fatto, la guerra tra Stark e Lannister, asse portante di tutta la serie fino a questo punto, è finita, almeno per il momento).
Soprattutto però il massacro degli Stark in casa Frey segna il punto di climax massimo nel percorso di maturazione e contatto con l’oscurità che Game of Thrones mette in scena dalla prima puntata della prima stagione, seppure con una certa incostanza, nei suoi momenti migliori, e che l’arrivo minacciato dell’inverno (e delle creature spettrali che porta con sé) rappresenta a livello simbolico. Neanche a dirlo, si tratta di nuovo di un percorso che passa attraverso il prisma familiare per riflettersi sui singoli individui, assumendo di volta in volta coloriture diverse.
Nella grande costellazione di Westeros, infatti, Casa Stark rappresenta la famiglia compiutamente borghese, benestante ma solidamente ancorata a un mondo di lavoro, etica e tradizione, severa a volte ma sempre giusta: Ned Stark incarna una figura paterna altamente positiva, ben lontana sia dal dispotismo di Tywin Lannister che dalla devianza del Re Folle. Gli Stark si distinguono dalla nobiltà decadente dei Lannister, che vengono dal caldo sud e il cui albero genealogico è un intrico di incesti, tanto quanto dall’esotica alterità dei Targaryen. Non sono tanto presuntuosi da ritenersi privi di macchia (Ned ha tradito Catelyn, un tempo) ma abbastanza da mantenersi a una distanza equa dalla cupezza di Grayjoy e Baratheon e dalla mollezza dei Tyrell. Sono i custodi della Barriera, infine, l’avanguardia nella lotta della civiltà contro le cose selvagge che vengono con l’inverno.
Per questo non solo il loro massacro, ma anche le tonalità altamente drammatiche con cui viene messo in atto (si tratta delle sene forse più violente della televisione mainstream dalla carneficina che chiude la seconda stagione di Boardwalk Empire) contengono un’informazione: mentre a sud del mare si sta formando una coppia che invoca una nuova purezza della razza (la biondezza eugenetica di Daenerys e Daario) la famiglia dei giusti semplicemente soccombe al maggiore cinismo dei ricchi Lannister. Ciò che Robb Stark aveva fatto seguendo le forze oscure del cuore viene disfatto dalla chiara violenza che potere e denaro possono edificare. In una bella scena della stagione precedente Lord Baelish dice a Cersei “knowledge is power”, e Cersei gli risponde “power is power”. Cersei, veniamo a scoprire (e lo scopriamo venendo a scoprire che lei e Jaime a loro volta l’hanno scoperto sulla propria pelle, con le proprie ferite) aveva ragione.
Così mi viene da pensare che in fondo tutto Game of Thrones potrebbe essere letto finora come il romanzo di formazione dei figli della famiglia Stark, strappati all’infanzia dorata di profonda armonia (intra e extra-familiare, con la natura e i suoi ritmi) dalla violenza dell’agire umano: prima con decapitazione pubblica di Ned, la paralisi di Bran e l’allontanamento di Jon Snow, e poi con la caduta di Grande Inverno e il massacro di Robb e Catelyn. Ognuno a modo suo ha intrapreso il percorso che da bambino lo porterà ad essere adulto, Sansa definendosi come dama ad Approdo del Re, Arya affermando la propria diversità rispetto proprio rispetto al ruolo di dama, Bran in una maniera più mistica e oscura. Non mi stupirei se proprio il suo potere empatico nei confronti delle cose selvagge, la sua polarità epilettica e il suo corpo reso inadatto all’azione finissero per convogliare su di lui il destino più grande, la maturità collettiva che verrà dopo l’inverno, con il nuovo ordine politico e sociale. Magari è il suo sguardo introverso (letteralmente: le pupille gli si rivoltano all’interno durante gli eventi metamorfici) a guardare la mappa dei Sette Regni e a conferirle un senso.