Deve solo mettere la sabbia sotto la veranda di cartone e la casa sarà finita.
Ha costruito la facciata con il portoncino e le due finestre sui lati, la veranda con la scale che scendono in spiaggia, il vialetto, con le gomme per cancellare al posto dei grandi ciottoli, che inizia dai gradini e finisce contro il bordo della scatola di scarpe.
Con le tempere ha colorato di bianco la facciata e di azzurro il portone.
All’inizio aveva pensato di disegnarla sulla torta, la loro casa al mare. Ci aveva anche provato ma il cioccolato si era mescolato con la panna e i granellini colorati avevano cominciato ad affondare nella copertura dissolvendo il disegno in pochi minuti.
La settimana prima il padre l’aveva portata al mare, c’è una cosa che voglio farti vedere, le aveva detto.
L’aveva trattata come un’adulta, spiegando segreti di un mondo quadrato: soldi, case, ipoteche. La Banca aveva cominciato allora a prendere una forma più fredda e geometrica e a perdere tutta la magia che aveva attribuito alla stessa parola solo pochi anni prima, quando in punta di piedi, mentre sua madre era allo sportello per pagare, rubava i moduli vuoti per portarseli a casa e fingere di essere l’uomo in giacca e cravatta blindato dietro a un vetro e sicuro di ogni suo gesto.
Mentre il padre le parlava, lei fissava suo fratello che raccoglieva conchiglie, i pantaloni arrotolati al ginocchio e si era sentita così grande, importante.
Le aveva detto: ricordi? Indicando una casa sulla spiaggia.
Lei aveva scosso la testa. No.
L’avrebbe nascosta nell’armadio per portarla poi giù a cena. Prima di chiudere lo sportello la guarda meglio, allontanandosi. È bella.
Esce dalla camera e nel corridoio vede suo fratello che legge qualcosa sdraiato sul tappeto della sua camera. In giardino, suo padre sta spingendo il tosaerba, sua madre stende i panni. E capisce cosa manca: la casa che ha costruito non ha niente di diverso dalla casa che hanno visto al mare, da fuori, con le finestre chiuse, il portone chiuso. Deve aprire le persiane, deve ritagliare le loro sagome e metterle in veranda, o sui gradini. Suo fratello potrebbe stare sulla sabbia a giocare.
Torna su e si mette al lavoro. Si sarebbero ripresi quella casa aveva detto papà.
Lui aveva costruito un’altalena, continuava a chiederle: ricordi?
Aveva detto: la ricompriamo e torniamo qui per l’estate.
Aveva detto: mamma non lo sa ancora, è una sorpresa, è un segreto fra me e te.
Avrebbe voluto abbracciarlo, ma gli aveva solo promesso, seria, che non l’avrebbe svelato a nessuno. Poi era corsa dal fratello vicino l’acqua. “Perché ridi?” niente, così. “Perché piangi?” niente, scemo, sta’ zitto.
La sagoma di se stessa l’ha vestita con i jeans e la sua maglietta preferita, quella nera con la stella rossa. Alla mamma non piace quella maglia. Come non le piace la musica che ha cominciato ad ascoltare, come non le piace la sua amica, come non le piace quando si mette un po’ di matita nera intorno agli occhi. Hai dodici anni, dove vai così? Come non le piace cosa sta diventando.
Sistema le quattro sagome e rimane a guardare di nuovo.
Sono brutte, la linguetta sotto i piedi di ciascuno si vede, la colla esce dai lati e ha impiastricciato tutto. Il lavoro ora è diventato sciatto, sporco, poco curato. Per aprire le finestre ha fatto un taglio fra le persiane e le ha piegate verso l’esterno, ma col taglierino è andata storta, non è perfetto. Non è più perfetto. E quelle sagome sono davvero brutte, non somigliano per niente a loro, tranne la sua.
I suoi sono rientrati, sono in cucina. Si chiede se vedranno la torta in frigo, se si ricorderanno del loro anniversario.
Si affaccia dalle scale per ascoltare.
Stanno urlando.
Agli angoli della torta, con uno stuzzicadenti, aveva inciso, piccolissime, quattro parole: non-litigate-mai-più. Poi con la mano stretta a pugno quattro colpi e le aveva cancellate, ora gli angoli erano un pochino più bassi, ma non era male, sembrava fatto apposta.
Torna in camera, la porta chiusa, lo stereo acceso, le voci arrivano solo leggere. Silenzio e urla si potrebbero anche mescolare. Si mescolano sempre, da che ricorda.
Strappa via quelle orribili sagome, la casa era meglio prima.
Sua madre apre la porta. “Ho visto la torta che hai fatto”, dice.
Lei indica la casa, “ho fatto anche questa”.
“Ah, tu lo sapevi?”
La sua voce è diventata subito più asciutta. “Tu lo sapevi? Tuo padre gioca, tuo padre ci riporterà sul lastrico, tuo padre ci farà togliere tutto di nuovo…”
La voce si scioglie, sua madre si inginocchia e la stringe. Le prende la testa fra le braccia a piange contro di lei. Quella carne è troppo calda, è troppo morbida, le guance bagnate, è sporco e fuori posto, la sensazione è quella di quando il suo amico le ha messo una mano sul culo, indagando insistente. Ed è sicura che sia la sensazione sbagliata.
Lei si scosta, guarda, le ripete, “ho fatto anche questa”.
“È molto bella.”
Ma sa che non la sta guardando, vorrebbe chiederle cosa manca, mamma secondo te cosa manca, voglio che sia perfetta. Vorrebbe dirle che prima la casa era bellissima, che non c’erano quelle macchie di colla, vorrebbe chiederle di rifare quelle sagome insieme, vorrebbe chiederle aiutami, ma lei ha smesso di piangere. La guarda, “stai diventando grande, stai diventando una donna”. Gli occhi per un attimo sulle sue tette piccole, si sente avvampare, la sensazione è sempre sbagliata.
“Sei abbastanza grande da capire anche tu che quello che abbiamo passato è stato un periodo nero, stiamo tirando fuori la testa solo ora, stiamo respirando solo ora, per comprare quella casa dovremmo ricominciare tutto daccapo. Non ce la faccio più, sono stanca.”
Sulla porta le ripete: “grazie per la torta e grazie per il lavoro, è bellissima quella casa”.
Lei rimane di spalle, non si volta, sa che sua madre non ha mai guardato per davvero. Si sarebbe accorta dei difetti, dei buchi, altrimenti.
“Scendi per cena.”
“Arrivo, un attimo.”
Nel silenzio della cena ci sono ancora le urla del pomeriggio. Suo fratello mangia facendo scorrere avanti e indietro un’automobilina vicino il piatto. Quando la spinge indietro si sentono una serie di piccoli scatti.
Osserva la mano del fratello, l’automobile color fuoco, vorrebbe essere in grado di incenerire gli oggetti con lo sguardo.
Suo padre si alza e va fuori a fumare. Nel buio del giardino, in fondo, si vede brillare di rosso la sua sigaretta. Si vede, vaga, la sua sagoma, un braccio sul fianco, le gambe un po’ larghe.
Sua madre si gira verso il lavandino, i piatti in lavastoviglie. Silenziosa, fa un cenno, “andate a letto” sta a dire.
Suo fratello la guarda, forse è l’unico a ricordarsi della torta.
Lei si mette un dito sulla bocca, sta’ zitto, e lo tira via per un braccio.
Toglie la sabbia, cerca di ripulire le tracce di colla. Le sagome non sono poi così male, prova a ritoccarle con un pennarello, affinando i tratti e inserendo i particolari. Ritaglia una nuova base per ciascuna e le incolla nuovamente ai loro posti. Rimette la sabbia, nel doppio travaso ne ha sparsa parecchia sul pavimento.
Guarda fuori la finestra e vede suo padre ancora lì, nella stessa posizione. Suo fratello gli corre intorno, gli chiede qualcosa, lui scuote la testa, senza guardarlo. Pensa al pomeriggio al mare, allo spiraglio, a suo padre che le parlava, che la guardava, che le raccontava aneddoti della sua infanzia.
Suo fratello torna lentamente dentro casa voltandosi indietro un paio di volte verso il padre. Il profilo di lui rimane immobile.
La porta che si apre la fa saltare. Suo fratello, con due piatti di torta.
“Che fai? Cos’è quella?”
Lei lo guarda, un ragazzino grassottello che i compagni chiamano “differita” e non gli risponde.
Lui si siede vicino a lei, osserva meglio la casa e le dice che manca il sole.
“Quel sole che sta appeso di fianco la porta. L’avevi fatto tu, a scuola, e mamma l’ha attaccato fuori. Mi piace quel sole, sta ancora lì.”
Lei prova a ripensare alla casa sulla spiaggia, non ricorda di aver visto.
Forse sì.
Suo fratello ritaglia un piccolo sole da un pezzetto di cartoncino giallo.
“Posso?”
Lo incolla vicino il portoncino.
Assaggiano la torta. Il fratello dice che è buona, che avrebbe dovuto prenderne di più. Lo osserva e si accorge per la prima volta, o per l’ennesima, dello sguardo che ha quando la guarda, quando le dice che la torta è buona, che la casa è bella, che il sole che aveva fatto da bimba era luminoso come un sole vero.
Vorrebbe accarezzargli la testa, vorrebbe proteggerlo, ripensa a quando l’ha visto pochi minuti prima rientrare in casa a testa bassa, voltarsi in attesa di un cenno del padre e poi trascinare i piedi fino a scomparire. Ma ricorda la sensazione dell’abbraccio di sua madre, nel suo corpo non c’è la soluzione.
Apre la finestra, mette fuori, sul davanzale, la casa di carta. In giardino suo padre non c’è più.
“La bruciamo?”
“Dovrai rifarla.”
“Non importa.”
Gli occhi del fratello brillano.
“Io ho un accendino.”
“Accendila tu, allora. vai.”
La casa è davvero perfetta in quel preciso istante. La luce delle fiamme li illumina mentre mangiano l’ultimo pezzo di torta e dalla finestra aperta entrano piccole ali di carta bruciata.
(photo by maria flor. on flickr.com)
15 risposte a “un sole luminoso come fosse vero”
non credo sia così facile far provare queste sensazioni ai lettori, Barbara ci è riuscita; mi piace come sia così diretta
si è brava. molto brava direi..
anzi, consiglio a te e a tutti quelli che leggessero questo commento di fare un salto un po’ approfondito sul suo blog, capita di trovarci delle cosine veramente veramente buone.
(consiglio da amico: legiti “vecchi porci”, a mio parere è eccezionale.)
… e a questo punto è ora di dare qualche spiegazione.
dunque. immagino che voi lettori vi sarete stupiti di trovare un racconto non mio su boring machies.
(se non vi siete stupiti avete qualcosa che non va. provvedete.)
il fatto è uno: qui a boring machines abbiamo idee da vendere. stiamo proprio impazzento, tante sono le idee..
con il racconto della nostra cara barbara abbiamo aperto una sezione di collaborazioni. questo significa: volete collaborare con boring machines? pubblicare un racconto, un pezzo giornalistico, una recensione, una foto, un video? fatelo.
in altre parole vorrei che questo blog fosse un po’ meno mio (chiaro che il plurale di sopra era majestatis) e un po’ più di tutti…
e ditemi: si poteva cominciare meglio che con il pezzo che avete appena letto? naturalmente la risposta è no.
(p.s.1 se non l’aveste capito quello che ho lanciato era un appello. mi attendo commenti proposte e richieste a non finire. ok??)
(p.s.2 vorrei dire ancora una cosa: scambiarci i racconti con barbara è stato molto bello. sono in un momento positivo. voglio bene a tutti voi, anche se siete pochi.)
sì, il fatto che sia stato bello e che abbia dato il via a un momento positivo e all’idea di aprire boring machines (ma anche il mio blog) a nuove collaborazioni è ancora più sorprendente pensando che non ci siamo scambiati null’altro che racconti e opinioni, niente informazioni personali se non indirette né antidepressivi e psicofarmaci d’altro tipo. davvero.
grazie per i complimenti ma ora smettiamola e parliamo di cose serie:
credo non basti un appello fra i commenti, penso che dovrai farti un giro in rete e lanciare proposte dirette a chi pensi che valga qualcosa… questo è un blog personale e non una rivista e le collaborazioni è giusto che abbiano quel carattere “personale” di scambio fra individui, no? non so se mi sono spiegata, ma sono pronta a partire.
a johnny: grazie, volevo essere “diretta” e sono contenta che questa intenzione sia passata un pochino. rispetto al passato sto cercando di uscire fuori dal simbolismo e dalla “visionarietà” (termine azzardato, non mi viene di meglio), dalla voglia di celare i veri significati. questo, me ne rendo conto, è stato pagato in termini di semplificazione dei temi e delle storie e anche delle scelte linguistiche, ma insomma, è un percorso, si cammina, spero, spero di andare, non dico avanti, ma almeno da qualche parte.
bello. brava barbara.
bella l’idea della collaborazione.
andate avanti, c’è che vi legge anche se non lascia commenti.
grazie
sì lo so dovrei girare un po’ in rete.
ma chiaramente l’appello era solo per i lettori fedeli, quindi più personale di così…
appena ho tempo andrò a fare due passi virtuali alla ricerca di nuovi talenti, voi se avete consigli esprimetevi!
(ps. chiedo venia per la mia assoluta assenza degli ultimi giorni. sono un pessimo padrone di casa. il fatto è che siamo in pieno festival del cinema, mi resta giusto il tempo di respirare.)
ah barbara… il tuo commento a questo post è stato il numero 100 nella storia di boring machines!
complimenti, hai vinto un mappamondo!!
dunque, non posso collaborare in prima persona a causa di carenza di materia prima e di ispirazione e di varie ed eventuali.
però non appena produrrò qualsiasi affare vagamente artistico di cui andrò fiero sarò ben felice di spedirtelo, perché l’idea di mi piace. Non trattenere il fiato nel frattempo, eh? 🙂
Per ora posso consigliarti un talento, ma forse è già diventato troppo famoso da quando l’ho incontrato:
Udronotto, ma forse lo conoscete già, usa i lego e tecnica mista, dovrebbe essere torinese
guardatevi questo, hihihi:

thanx johnny, guarderò i links.
se nel frattempo partorisci qualcosa di buono spedisci.
cheers.
volevo commentare l’ultimo post “cinematografico” (prima o poi verrò a torino fuori dalla fiera del libro, mi auguro, magari, chi lo sa, il prossimo anno sarà proprio per l’edizione 2008 del tff) ma in realtà comincio a offendermi perché il mappamondo non mi è arrivato: o la vicina ha sedotto il postino in mia assenza e se l’è fatto consegnare al mio posto oppure… oppure boring machines mi puzza di fregatura!
cara barbara b.,
la redazione di boring machines ha ricevuto le sue proteste in merito al mancato recapito del mappamondo da lei vinto in quanto centesima commentatrice del suddetto blog.
ad ogni modo la redazione si vede costretta a rifiutare la sua richiesta e ad offendersi mortalmente per le sue insinuazioni per i seguenti motivi:
1. nessuno ha mai specificato quando e come le verrà recapitato il mappamondo in questione;
2. tale mappamondo, come qualsiasi altra cosa su boring machines, è da intendersi in senso puramente simbolico;
3. se non le piacciono i simboli non avrebbe dovuto fare la scrittrice; avrebbe per esempio potuto fare il panettiere, se non le piacciono i simboli, che almeno avrebbe aiutato ad eliminare la fame nel mondo;
4. indubbiamente la sua vicina di casa è molto attranete;
5. i postini sono specie in via di estinzione, e quindi protetta; qualunque commento negativo sul loro conto è punibile a termini di legge.
consapevoli che accetterà questa nostra missiva nei termini costruttivi dell’automiglioramento, e che non andrà oltre nella sua assurda richiesta di ricevere DAVVERO un mappamondo, le porgiamo i migliori auguri per il natale imminente.
cordiali saluti,
la redazione
sarete contattati dai miei avvocati.
non aggiungo altro.
anche perché non ho ancora letto (acc!) altro.
e qui vedo roba nuova e roba nuova…
Un grande applauso a Barbara per il testo, bello, in poche righe ha tratteggiato uno spaccato di disagio familiare dandoci un quadro completo
dei sentimenti dei protagonisti
Volevo anche ringraziare johnny per avermi definito talento, per quanto riguarda poi il famoso ci andrei piano.
Se volete utilizzare delle mie foto, come avete fatto in un altro post non ci sono problemi, l’unica cosa è di inserire il nome, come d’altronde avete già fatto per la foto di Warhol.
Scusate per l’invadenza.
ciao
invadenza perdonata, anzi sono molto contento di ospitarti da queste parti.
in realtà avevo intenzione di scriverti, giusto così per comunicarti il “prestito” della foto whoroliana (e anche perchè siamo entrambi di torino e il riguardo mi sembrava minimo) ma mi sono scordato.
mi dispiace che la tua foto sia finita a commento di un pezzo che non è proprio un granchè, ma avrò modo di rifarmi, spero.
grazie di essere passato, alla prossima.
grazie.