PARTE PRIMA (ovvero perchè sono arrivato a questo disco e soprattutto come ci sono arrivato)1
(photo by: J.Ota, on Flickr.com)
Quattro anni fa lasciai la casa di mia madre (nel basso novarese, in quella terra di nessuno che congiunge Piemonte e Lombardia) per salire sul treno che mi avrebbe portato a Torino. Ero pieno di speranze confuse, la maggior parte delle quali espresse sotto forma negativa: non essere più questo e quest’altro, non fare più questo e quest’altro eccetera. Avevo con me poche cose: una copia dei Quarantanove racconti di Hemingway (ma ancora non potevo sapre di cosa parlasssero davvero, quei racconti) e un iPod pieno di musica scaricata alla rinfusa nella fretta dei preparativi. Tra i pezzi uno in particolare mi colpì: si chiamava Martina (non sapevo perchè diavolo l’avessi scaricato, forse a causa dell’eco lontana di adolescenza che mi suggeriva quel nome), lo riascoltai alcune volte e appuntai il nome del gruppo sul retro di copertina del volume Mondadori di Hemingway. Mi ripromisi di fare qualche ricerca, e per il momento la cosa finì lì. Fuori si era fatto buio e il treno era entrato nella cintura di Torino. Rimasi a guardare luci e ombre cercando di pensare il meno possibile.
Dodici mesi dopo tutto era cambiato, ed erano cambiate anche le mie letture: non più Hemingway né Pavese (né Thoreau o Sherwood Anderson) ma Bolaño, Mutis, Ballard, Kafka, Bernhard. Un libro che rilessi almeno quattro volte nel corso di quell’anno si intitolava Le cose del mondo sono fumo e questo era il mio pensiero costante: naufragio, crollo delle speranze, cattedrali costruite nel bel mezzo della foresta nera e lasciate per sempre incmpiute. Erano cambiati anche i miei ascolti, approdavo allora ai Sonic Youth, agli Einsturzende Neubauten, allo shoegaze, all’elettronica. Cosa fosse successo esattamente dal momento in cui avevo lasciato il paese per trasferirmi nella grande città (che a guardarla bene non è così grande, ma io allora non potevo saperlo) è inessenziale ai fini di questo discorso. Quello che conta è ciò che nel corso di quel primo anno di università scoprii (o intuii): la solitudine, il dolore, l’ansia, le notti di panico e insonnia vissute nella certezza di una fine imminente – fine che naturalemte non arrivava mai, trascinando l’attesa giorno dopo giorno, ora dopo ora. La consapevolezza di un mondo instabile, la nevrosi collettiva del post-undici settembre, la scoperta di non essere unici e non essere immortali, la visione paralizzante del lato oscuro dell’esistenza: niente di strano. Eppure un niente (Il niente, il vuoto) al quale non sei preparato, perchè nessuno a scuola ti ha mai insegnato che esiste, perchè tutti intorno a te sembrano ignorarlo, perchè il processo di rimozione del malessere è l’unica cosa che funziona ancora in quest’Occidente malato… niente di strano, dicevo, chiunque l’abbia provato sa di cosa parlo. E non voglio nemmeno dilungarmi, o ammantare questa cosa di troppa letteratura. Ma era un inizio (l’unico inizio possibile del destino umano) e una fine (la prima vera fine che fui costretto ad affrontare) e fu doloroso. Fu grazie a questo dolore che iniziò il mio rapporto con la musica dei Baustelle.
In quello stesso periodo comincai con la psicoterapia. Poi abbandonai la psicoterapia per rivolgermi ad uno psichiatra: presi ipnotici e tranqullanti, ansiolitici e antidepressivi. Quando capii (ne sono tuttora fermamente convinto) che la soluzione non è nei farmaci ricomincai le sedute di psicoterapia (che proseguono tuttora regolarmente). Un pomeriggio di primavera ripresi in mano il volume di Hemingway e sul retrodi copertina trovai scritto il nome di quel gruppo che nel frattempo avevo praticamente dimenticato. Visto che mi ero munito di un computer con connessione ad internet scaricai altri pezzi (che mi piacquero di più ad ogni ascolto) finchè non decisi di comprarmi un album, il primo, Sussidiario illustrato della giovinezza. E questa volta fu una folgorazione; perchè lì dentro c’era tutta l’adolescenza, come l’avevo vissuta e come cercavo di raccontarla ogni vlta che scrivevo; perchè c’era amore e disperazione, e ironia e un qualcosa di acerbo e vibrante che riconoscevo interamente come mio. La moda del lento me lo persi2 (lo ascoltai solo alcuni anni più tardi) e quando si arrivò al boom (decisamente tardivo) de La malavita potevo già considerarmi un eistimatore più ancora che un fan. Gli ultimi versi de Il corvo Joe e pezzi come I provinciali (che non potevano far altro che ricordarmi me stesso) mi fecero capire c’era ancora dell’altro. Poi, esattamente diciassette giorni fa, è uscito Amen.
PARTE SECONDA (cioè il disco)
Eviterò in questa sede di fare la “classica” (almeno stando alle recensioni comparse sul web per quest’album) disamina brano per brano, e questo almeno per due motivi: primo perchè non ho nessuna competenza per un’analisi di stampo tecnico di qualsivoglia lavoro musicale; e secondo perchè in Amen, come in un racconto di Carver, conta molto di più il non detto (l’atmosfera, tutte quella sfera di sensazioni epidermiche che in qualche modo vanno oltre l’espressione artistica) della composizione musicale stessa. Quindi quello che state per leggere è il resoconto delle mie emozioni di fronte ad un’opera d’arte, e poco conta, qui, che si tratti di musica o di altro. Non una recensione tout curt, insomma, ma qualcosa di leggermente diverso.
La prima cosa importante da dire a chiunque voglia accostarsi a questo ascolto è di seguire il consiglio di Bianconi & Co. riportato all’interno della custodia del disco: questo non è un album da sottofondo, va ascoltato a volume alto, meglio se in cuffia. Detto ciò, la prima cosa che colpisce è la differenza sostanziale che si nota tra Amen e i precedenti lavori della band toscana. Insomma, prima di tutto si rimane spiazzati: gli arrangiamenti sono corposi, le armonie complesse, la melodia compie virate bruschissime da passaggi tra semitoni vagamente dissonanti e chiusure cantabili che ricordano la più commericale tradizione pop italiana (il ritornello de L’aeroplano) o addirittura il jingle pubblicitario. La stessa vena schizofrenica la si ritrova a livello di testi: dalle citazioni coltissime (e esasperate) di Baudelaire all’ostaggio di un linguaggio colloquiale ai limiti della banalità (in Charlie fa surf: “Io non voglio crescere, andate a farvi fottere”, detto da un quindicenne pasticcomane…). Colpisce poi l’utilizzio ampio di archi e fiati, il ricorso (assolutamente inedito nei Baustelle) a vasti spezzoni strumentali, l’accostamento a generi musicali tra i più disparati (dal pop all’elettronica, dalla fusion alla bossa fino alla western sountrack della seconda traccia nascosta). Insomma, una gran confusione.
Le cose cominciano a chiarirsi dopo il secondo o terzo ascolto e dopo un’accurata lettura dei testi. Allora si ritrovano i Baustelle che conoscevi, con ampi riferimenti che vanno dai Pulp a Battiato fino al cantautorato italiano più tradizionale. E questo ti rassicura. Ma c’è dell’altro che ancora non riesci a penetrare, senti che ciò che conta ancora non ti è arrivato…
Il passo successivo (ma qui sto parlando a livello strettamente personale; immagino che le cose cambino per ogni ascoltatore) è una sensazione di angoscia e schianto e liberazione tutto sovrapposto, e anche, in un certo qual modo, soffocante. Superato lo scoglio dei primi ascolti l’essenza di questo lavoro comincia a trapelare sempre più rapidamente, è come una diga che esplode e valanghe d’acqua ti si riversano addosso. E comincia a sfilarti davanti una carrellata di ombre, naufraghi della deriva occidentale e assassini in giacca e cravatta, cannibali e schiavi magrebini nei campi di pomodori di Foggia, sadomasochisti, gente che non ha più voglia di vivere e gente che vorrebbe vivere e chiede una grazia che non potrà mai ottenere… e poi ci sono i simboli, i miti della nostra Storia che si confondono l’uno nell’altro, pistoleri e detective, guerra armata e avanguardia, DC e PCI, e l’eco delle guerre infinite del Medio Oriente e astronavi che lievitano in un “ingoto spazio profondo” che sembra liquido amniotico, e poi ancora Pasolini e Socrate, e la morte in diretta di Alfredino Rampi…
I toni variano entro uno spettro pressochè infinito di emozioni umane. Si va dal disagio psichico trasfigurato in pop (Il liberismo ha i giorni contati: qui la creazione di immagini raggiunge uno dei suoi punti più alti; ogni singola parola è tagliente e ineluttabile come il destino contenuto nei nervi e nel sangue dell’uomo contemporaneo) fino all’hard boiled di matrice politica (Colombo, un piccolo saggio sul Male), dall’estasi visionaria (L.) fino all’intimismo più straziante (Alfredo, forse, tutto considerato, il pezzo migliore dell’album) all’”inno rock-and-roll” liberatorio e (solo apparentemente) scanzonato (Panico!).
Fino al breve pezzo che chiude l’album, Andarsene così, con echi di quelle feste massificate dell’elettronica anni 90 (in sottofondo voci e cori – una partita di calcio? – e un loop di synth stile Underworld) e il cantato di Bianconi che chiama all’impegno civile (o meglio alla resistenza civile) da profondità siderali, lasciando stupefatti (e commossi) perchè una cosa così, in Italia, non si vedeva da molto tempo.
PARTE TERZA (discussione; o anche: non so se ve ne siete accorti ma da un po’ di tempo a questa parte tira aria di catastrofe)
(photo by: Norma Desmond, on Flickr.com)
Direi che le considerazioni extra-musicali relative al nostro discorso si estendono in due direzioni principali:
1. L’arte buona è quella che pone radici nel lato oscuro dell’anima, o anche: conosci te stesso.
Qualche riga sopra dicevo che con il mio arrivo a Torino (e la crisi che ne è necessariamente derivata), con il mio accostamento alla psicologia e il transito nel mondo degli antidepressivi sono cambiate anche le mie letture: non più Hemingway o Pavese, dicevo, ma Ballard, Bernhard ecc. Ma qual’è la differenza tra Pavese e Ballard, ci si potrebbe chiedere, cosa rende un autore radicalmente differente dall’altro?
Mi viene abbastanza naturale distinguere in due tipi di elaborazione artistica della realtà: un’elaborazione tesa a ignorare (o vincere o superare) il malessere e un’elaborazione che tende invece a scontrarsi con il malessere, a conoscerlo, a farlo proprio e dunque (ma solo a quel punto) alleggerirlo del suo peso insostenibile. Ogni volta che mi trovo nelle mani un libro di Hemingway (per molto tempo uno dei miei autori preferiti) non posso far altro che provare un senso di falsità: tutte quelle parole mi sembrano scritte all’unico scopo di mascherare l’ineluttabilità del destino umano – a far finta che la morte non esista. (E così fu la sua vita: il safari in Africa per annullare l’essenza propria e del proprio tempo.) Hemingway e Pavese videro il vuoto3 ma costruirono un’architettura infinta per evitare di affrontarlo (la guerra, il mito eccetera). E finirono per suicidarsi quando semplicemente non c’era più nient’altro da fare.
A differenza loro, Ballard o Bernhard o Kafka (ma, per cambiare ambito: gli Einsturzende, Nick Cave e i Bad Seeds, i Sonic Youth) cominciano il loro percorso da una presa di coscienza estrema del Male; e alla fine del percorso il Male viene compreso, conosciuto, addomesticato4.
Detto ciò mi sembra che il passo per collegare questi mostri sacri all’ultimo lavoro dei Baustelle sia piuttosto breve. Perchè proprio questo (credo) è il punto di maggior valore di Amen – e siamo già oltre ad un giudizio asettico sulla compiutezza o meno di un artefatto artistico; si tratta già di militanza, in qualche maniera. Perchè lungo le quindici (più due) tracce si respira un’aria di infinita consapevolezza del problema del Male (individuale, storico, sociale, spirituale, divino), e perchè quello stesso Male viene addirittura, in qualche caso, esorcizzato (si veda per esempio Panico!, un vero e proprio “inno” all’accettazione del proproio malessere). E dire cose del genere (e dirle in modo così compiuto), lasciate che lo ripeta, è indice di una maturità profonda e difficilissima da raggiungere; è segno che forse, almeno da qualche parte, le cose stanno cambiando.
2. Storia presente e militanza
E arriviamo al punto principale. Signore e signori, le Torri Gemelle sono cadute. L’America è in recessione economica, manipulite e le stragi mafiose sono passate da quindici anni, la Russia è governata da un ex dirigente del KGB, la guerra in Medio Oriente rischia di diventare più pericolosa della pericolosissima atomica coreana. I prezzi dei beni di prima necessità sono alle stelle, la tensione sociale è palpabile per le strade delle città (le province collassano nel silenzio, con qualche morto ammazzato di tanto in tanto) e come se non bastasse al governo del nostro Paese rischia di tornare un massone dai comprovati legami con Cosa Nostra.
Oppure possiamo metterla così: io ogni tanto ho il panico, Francesco Bianconi ha (o ha avuto) il panico, molti di voi che state leggendo sapete cosa significa avere il panico. Possiamo pensare di essere noi i malati o possiamo renderci conto che questo maledetto panico è una malattia sistemica e non individuale, che la pressione sotto il coperchio della pentola è a livelli davvero troppo alti e che bisogna fare qualcosa perchè le cose cambino.
Viviamo in un tempo e soprattutto in un luogo di oscillazioni (davvero schizofreniche) tra immagini della realtà diametralmente opposte: si va dalla nostra piccola Italia di colletti bianchi, dove tutto ancora oggi nel 2008 appare morto e stagnante5 a immagini insistenti di un futuro prossimo di grandi sconvolgimenti socio-politici (il clima, il terrorismo internazionale, la polarizzazione della lotta politica, la globalizzazione e l’anti-globalizzazione, la clonazione, l’ecosostenibilità eccetera), un presente insomma che conserva in sé i tratti fantascientifici di un futuro che parrebbe (nel bene e nel male) ineluttabile.
Ora, il succo di tutto questo lungo discorso è che per noi, italiani alle soglie delle ennesime elezioni politiche, futuri cittadini dell’Unione Europea e occidentali in crisi, un lavoro come Amen acquisisce un importanza capitale. E non per perdersi in un elogio sperticato dei Baustelle o di chi come loro cerca di fare del proprio mestiere d’artista un bene utile al sociale (o un macigno di militanza politica); ma perchè un album come Amen è il segnale che le cose stanno cambiando, o quantomeno che le cose possono cambiare. Direte voi che non era del tutto necessario spandersi in tante parole per giungere ad una conclusione così semplice – ma questa conclusione semplicissima è oggi, e soprattutto in Italia, difficilissima da sostenere.
Quindi invito tutti coloro che hanno avuto la pazienza di arrivare a questo punto ad ascoltarsi Amen con attenzione e a meditare. Ma non solo. Invito tutti quanti a tenersi informati e a prendere coscienza delle grandi transizioni che stiamo vivendo, invito chi legge a leggere sempre i più e chi scrive a rendersi conto che la scrittura, come qualunque altro atto umano, è necessariamente militanza politica, comunque la si voglia mettere.
È un appello facile da esprimere e difficilissimo da perseguire – me ne rendo conto – però mi sembra l’unica cosa onesta che può essere detta, senza retorica, in questi tempi di parole vuote. Non si sa mai che, contro ogni previsione, ci sia un futuro anche per noi.
NOTE:
1Nota per il lettore. Prima che cominci vorrei chiederti un favore: flessibilità. Insomma, arrivato alla fine della prima parte ti stupirai delle coincidenze e penserai con astio che ti ho perso in giro o che sono un inguaribile narcisista. Be’, non è questo l’intento. Voglio dire che sì, questo resoconto pseudo-veritiero del mio incontro con la musica dei Baustelle non è del tutto aderente allla realtà. Ma “boring machines” è un blog dove si parla soprattutto di letteratura (si scrivono racconti, per lo più) e anche questo pezzo vuole essere qualcosa a metà strada tra una narrazione, una confessione, una recensione musicale, un analisi del tempo presente e un appello alla militanza politica. Quindi fidati: il succo del discorso è ricalcato fedelmente sulla realtà come l’ha vissuta chi sta scrivendo. Le circostanze del discorso invece sono romanzate. Spero sinceramente che ciò non ti disturbi più di tanto. (Peraltro, se non sei un lettore abituale di “boring machines”, questa prima parte puoi tranquillamente saltarla. Senza sensi di colpa, davvero.)
2Tenete conto di questo: Sussidiario è del 2000 e io lo ascoltai per la prima volta interamente nel 2005, poco prima che uscisse La malavita. La moda del lento è del 2003 e io lo ascoltai nel 2006, cioè due anni fa.
3Si badi: qui si sta gia parlando di esseri umani con un alto livello di consapevolezza: Hemingway e Pavese fecero i conti con il vuoto, ma non riuscirono a superarlo. Chiunque nella sua vita decida che il vuoto proprio non va considerato, semplicemente parte da presupposti troppo diversi dai miei perchè un dialogo proficuo sia possibile.
4Sull’ironia in Kafka leggetevi Deleuze-Guattari – Per una letteratura minore. Fatelo davvero, è splendido.
5Questo senso di decomposizione è presente lungo tutto il percorso di Amen come un verme strisciante. Bianconi a volte usa immagini degne dell’Ecclesiaste e anche questo, a mio avviso, gli rende merito.
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